domenica 5 novembre 2017

"Il mio Godard": recensione e incontro stampa con Louis Garrel e Michel Hazanavicius

di Silvia Sottile




Presentato in concorso al Festival di Cannes 2017, Il mio Godard (Le Redoutable) restituisce un ritratto affettuoso e ironico di una delle figure più importanti del cinema francese e mondiale, quella di Jean-Luc Godard, interpretato da Louis Garrel. Attraverso lo sguardo dell'allora giovanissima moglie Anne Wiazemsky (Stacy Martin), la pellicola ripercorre il Sessantotto, il maoismo, le proteste contro la guerra in Vietnam, ma soprattutto la storia d'amore appassionata, intensa e complicata, romantica e anticonformista, tra il cineasta francese e la bella Anne.

Film inaspettatamente ironico e avvincente, diretto magistralmente dal premio Oscar Michel Hazanavicius (The Artist), Il mio Godard si basa sulla biografia  Un an après di Anne Wiazemsky e si concentra principalmente sul Maggio ’68, periodo che trasforma radicalmente Godard da cineasta star ad artista maoista fuori dal sistema, tanto incompreso quanto incomprensibile. 

Ottime e credibili le interpretazioni di Louis Garrel e Stacy Martin, a cui si affiancano Berenice Bejo (Michèle Rosier), Micha Lescot e le brevi apparizioni di Guido Caprino (nel ruolo di Bernardo Bertolucci) e Matteo Martari (Marco Margine).

Il mio Godard  è un film che rende vivo Godard, senza mostrare soggezione per questo mito con cui si confronta, utilizzando anche i toni ironici, tipici della commedia.


Abbiamo avuto il piacere di incontrare in conferenza stampa il regista Michel Hazanavicius ed il protagonista Louis Garrel, a Roma proprio per presentare la pellicola, nelle nostre sale dal 31 ottobre con Cinema di Valerio De Paolis.

Come mai la scelta di questo titolo, Le Redoutable?”

H.: “Non sono mai stato bravo nella scelta dei titoli. Negli Stati Uniti uscirà col titolo Godard mon amour, quindi più simile alla scelta italiana, Il mio Godard. Evidentemente il titolo francese non funziona bene”.

Ha avuto difficoltà nel costruire il personaggio di Godard?

H.: “Quello che si vede sullo schermo è il risultato di vari punti di vista. Alla base c'è il libro dell’ex moglie. Lui è  un personaggio molto sfaccettato e paradossale che è tante cose contemporaneamente. Ha lottato per le cose in cui ha creduto. In lui convivono il mito e l'essere umano. È libero, complesso e paradossale, ha una libertà espressiva eroica”.

G.: “Io interpreto un Godard che non è più lui, è un personaggio immaginario”.

Un film sul ’68 fatto da un regista e un attore che non li hanno vissuti…

H.: “Infatti non è un film nostalgico… Ho immaginato due mesi nella vita della Francia che ha un momento di crisi. Godard è una persona che non sa amare gli altri, ma soprattutto non sa amare se stesso”.

G.: “Io ho già fatto due film sul ’68, uno è The Dreamers  di Bertolucci”.

 Louis Garrel 
 Copyright foto © Silvia Sottile

Che rapporto ha con Godard?

H.: “Amo il Godard del primo periodo. Erano film con budget non enormi ma mi piace molto come li caratterizzava con quell’originalità che dà l'autore. Quelli del gruppo Dziga Vertov sono lontani da me. Ho fatto attenzione a non giudicare nel film le scelte di Godard. La mia volontà è stata illustrare le scelte che fa: il ritratto di una coppia e di un uomo. Sono stato attento a non dare un giudizio. Non ho trattato la materia troppo seriamente per non per non spingere la gente ad alzarsi. Gioco coinvolgendo lo spettatore. E’ necessario avere una cura estrema anche nelle immagini per creare una sofisticazione, anche per trattare Godard, altrimenti è difficile tracciare ritratti di persone ed epoche. Da parte mia non c'era la volontà di mostrare il percorso di Godard come uno che ha sacrificato la sua arte ma volevo mostrare la frattura che nel ‘68 avviene nella sua carriera e decide di lasciare un cinema non industriale ma tradizionale. Quel momento di radicalizzazione coincide anche con una depressione personale in quel periodo. Non trovo sia stato un sacrificio ma una scelta coraggiosa. Anche dell’illusione maoista si può parlare con leggerezza non perché non sia valida ma solo perché trovo sia l’unico modo per raccontarla”.

Come fa a fare dei primi piani così belli?

H.: “Quando si filmano attori come Louis Garrel, Berenice Bejo, Stacy Martin, è facile fare un primo piano. A me piace fare i campi lunghi per poi dare forza al primo piano quando ti avvicini. Merito degli attori e del direttore della fotografia. Un gioco di distanza e avvicinamento”.

 Michel Hazanavicius
Copyright foto © Silvia Sottile

A suo avviso, come sono trattati i personaggi italiani, come ad esempio Marco Ferreri e Bernando Bertolucci?

G.: “Questo film non è realista. Non conosco Ferreri, conosco Bertolucci. Sono trattati con tratto comico. Non è un documentario, giochiamo attraverso la distanza dell'umorismo. Il ‘68 è preso sul serio ma quando l'ideologia era così legata al modo di lavorare è la storia di un'epoca che non esiste più oggi, quindi il modo di raccontarlo è leggero, un gioco. Oggi quando ascolto Godard ho molta ammirazione ma devo salvarmi dall’ammirazione che provo per lui perché dice ad esempio che Truffaut è merda. Lo capisco ma mi mette in contradizione con me stesso perché a me Truffaut piace . Questo gioco di contraddizioni nei film e sulle opinioni mi sembra interessante, anche creare dispute. Ha bisogno di film di intrattenimento ma anche impegnati. La mia generazione non fa più politica con i film. È finita. C'è una morale etica da rispettare ma quello in tutti i gesti della vita”.

H.: “Tutto è politica. Anche la commedia più stupida è una dichiarazione politica. È il cinema in quanto tale che mi dà forza. All'epoca non erano i film che facevano spostare la folla. Cosa mi fa spostare? Il cinema in sé, il linguaggio cinematografico, la potenza del cinema . Allora il film era qualcosa di prezioso, non ne uscivano molti, si doveva andare al cinema. Oggi puoi accedere anche con lo Smartphone e questo ha diminuito il valore. La mia preoccupazione in ogni istante fin dall'inizio è stato trovare un equilibrio. Volevo fare film gioioso ma non una caricatura. Una via di mezzo tra critica ed ironia, tragedia e commedia,  personaggio positivo e negativo. Scola, Risi, Monicelli e Wilder sono stati i miei esempi. Film che mostrano l'essere umano nella sua complessità e contraddizione. Un amico è una persona che ti conosce abbastanza bene e ti ama comunque. E la mia preoccupazione era amarlo comunque”.

G.: “Michel ama Godard ma non è il suo idolo. Per lui Scola è come per me Godard. Io ho messo empatia nella mia interpretazione. Come attore ho fatto film di genere autobiografico con cose nei film che mi sono successe realmente nella vita. Per la prima volta metto una maschera in questo film. La mia generazione gioca al teatro con questi personaggi. Mi piace essere nascosto dietro qualcuno. Non è un film realista ma giocoso. Godard mi piace soprattutto per il suo coraggio. Michel fa film non solo per cinefili ma anche per il grande pubblico, con tutte le contraddizioni che questo comporta”.

 Louis Garrel
Copyright foto © Silvia Sottile

Come vedete il ‘68? Si può leggere con ironia oggi? Era un’epoca di scontri ma oggi come la vedete voi che siete due post sessantottini?

H.: “Il maggio ‘68 nel mio film non è trattato in modo comico ma al primo livello vuole mostrare la gioia, la vivacità, l’umorismo e l’entusiasmo giovanile che hanno caratterizzato quel momento. E poi lo scarto di Godard. Non si possono contrapporre le proteste di allora con quelle di oggi. Oggi ci sono i social network che hanno avuto una grossa parte anche nelle proteste dello scorso anno in Francia. Ora c'è una radicalizzazione politica. Allora la politica era grigia e volevano spodestare la destra di de Gaulle che deteneva il potere da 25 anni ma sempre nella democrazia e con la repubblica e poi volevano sostituire i vecchi con i giovani, ora invece la radicalizzazione porta problemi e grandi difficoltà a mantenere lo spirito democratico rivoluzionario”.

G.: “La grande differenza tra il ‘68 e oggi è che non c'erano cinque milioni di disoccupati. Oggi è più difficile fermare la situazione. Il Mondo è più preoccupato. Ma è anche difficile trovare un nuovo modo di comunicare”.

H.: “In Francia i rivoluzionari sono assimilati ad uno spirito triste, nel ‘68 lo spirito era gioioso per cambiare le cose. Adesso i rivoluzionari danno un'impressione deprimente, anche perché  poi in realtà non è così da buttare via il paese!

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