venerdì 13 luglio 2018

"Una Luna chiamata Europa": intervista al regista Kornél Mundruczó

by redazione


Giove ha 67 lune conosciute. Le quattro più grandi furono scoperte, nel 1610, da Galileo Galilei. Si pensa che una delle lune abbia una mare salato sotto la superficie ghiacciata. Potrebbe essere l’origine di nuove forme di vita. Questa luna è stata chiamata Europa.

Dal 12 luglio è al cinema Una Luna chiamata Europa di  Kornél Mundruczó, distribuito da Movies Inspired.


SINOSSI

Aryan viene ferito mentre cerca di attraversare illegalmente la frontiera ungherese. Sopravvissuto, il ragazzo scopre che ha ricevuto in dono la capacità di levitare. Rinchiuso in un campo di rifugiati, riesce a scappare con  l’aiuto  del dottor  Stern che vuole sfruttarne lo straordinario potere.

INTERVISTA AL REGISTA KORNÉL MUNDRUCZÓ


CHE COSA SIGNIFICA IL TITOLO DEL FILM?

"Una delle lune del pianeta Giove, scoperte da Galileo, si chiama Europa. Per me era importante considerare questo f ilm come una storia europea, radicata in un’Europa in crisi, inclusa l’Ungheria. Allo stesso tempo, cercavo di dargli un’aria da fantascienza contemporanea. Sono appassionato di questo genere fin dall’infanzia e penso che ciò si percepisca in certi miei film precedenti, come  White God  –  Sinfonia per Hagen  o  Tender  Son  -  The Frankenstein  Project.  Abbiamo inoltre lavorato attorno all’idea di straniero domandandoci chi sia il vero straniero. È una questione di punto di vista. Giove è sufficientemente lontano da noi perché ci si possa porre nuovi interrogativi sulla fede, i miracoli, la diversità".

SI TRATTA DI UN FILM FUTURISTICO OPPURE SI SVOLGE NEL PRESENTE? "Sfortunatamente, non si tratta più di futuro. In origine il film avrebbe dovuto essere ambientato nel futuro ma, mentre stavamo cercando i finanziamenti, tutto è diventato reale. Non volevamo fare un film sui rifugiati, bensì utilizzare l’attuale crisi come contesto per ripensare i miracoli. Abbiamo discusso a lungo per capire se il soggetto dei rifugiati non fosse diventato troppo attuale, siccome tendo a rifuggire da narrazioni ideologiche che si inscrivono nell’attualità bruciante. Credo piuttosto nell’idea di un’arte classica, che agisce come l’acqua sul cemento: consumandolo e sgretolandolo. Ai miei occhi, l’arte fondata su fatti reali e opinioni politiche è meno interessante, per cui, quando siamo tornati a lavorare alla sceneggiatura, abbiamo cercato di prendere un po’ di distanza tanto a livello della narrazione quanto del linguaggio del film".



SI PUÒ DIRE CHE LA CAPACITÀ DI VOLARE SIA ALL’ORIGINE DI QUESTO PROGETTO? "Uno dei miei libri preferiti, da bambino, era  Ariel  di Alexander Belyaev, romanzo su un bambino in grado di volare. Immaginate un essere dotato di poteri sovrumani, e  i  contrasti  e  le  tensioni  fantastiche  che  questa  condizione può generare attorno a lui. Con il passare del tempo, mi pongo sempre più domande a proposito della fede. In un certo senso ho sempre pensato che esista una fede più grande, totale e universale, al di là di quella relativa dettata da  una  cultura  e  da un  determinato  periodo;  una  fede  che possa avere un impatto su tutti, specialmente in un’epoca in cui sembriamo voler regolare i nostri conti con la religione tradizionale, o con Dio. Invece, siamo classificati in base ai soldi e al successo, secondo l’onnipresente Dio del popu- lismo  e  dell’immediata  soddisfazione.  E,  naturalmente, mettere in primo piano un individuo capace di volare solleva  delle  domande  a  proposito  di  ciò  in  cui  crediamo. Inoltre, solleva domande su ciò che lo spettatore è disposto a 8 credere. L’incontro con un miracolo richiede l’implicazione attiva dello spettatore, obiettivo che cerco sempre di raggiungere. Certo, il film parla dei rifugiati, ma è anche una ricerca di Dio, nel senso che dobbiamo riconoscere che a volte si incontrano cose assolute o  misteriose. Il personaggio di Aryan ne è la materializzazione: una figura cristologica nel corpo di un rifugiato che potrebbe essere un angelo. I miracoli non si manifestano mai dove li si attende, e forse non li utilizziamo mai come si dovrebbe".

PARLACI DEL DR. STERN E DELLA SUA POSSIBILE EVOLUZIONE
"Era da tempo che volevo illustrare la relazione tra un uomo maturo e uno giovane. Kata  Wéber ha  scritto la  storia, e a questo proposito bisogna notare che lei conta numerosi dottori fra i suoi antenati. Eravamo affascinati dall’archetipo contemporaneo del praticante, nel film un medico che sta perdendo la fede, che non ha più voglia di curare le persone e che si accontenta di sopravvivere, privo di ogni illusione. Credo che nelle nostre vite ci siano momenti nei quali ci sentiamo prigionieri, senza vie d’uscita, oppure momenti nei quali cerchiamo disperatamente un’àncora di salvezza. Ho cercato a lungo di identificarmi con il personaggio  di Aryan, ma  mi  sto  avvicinando  a  un’età  in cui inizio piuttosto ad assomigliare al Dr. Stern. Naturalmente, entrambi  i  personaggi  contengono  molti  elementi autobiografici, e la storia si ispira anche a un’amicizia simile che mi è cara. Mi piacerebbe che Stern trasmettesse allo spettatore il messaggio che si può sempre cambiare se esiste qualcosa per cui ne valga veramente la pena. Bisogna superare la cecità causata da troppa razionalità. Abbiamo reso  il  personaggio di  Stern  davvero  cieco. Anche quando incontra Aryan con il suo dono miracoloso, l’unica sua preoccupazione  è  il  profitto  personale  e  mostra  grande difficoltà  nel  comprendere  che  potrà  trarne  dei  vantaggi solo se sarà pronto a fare dei sacrifici".

COME HANNO INFLUENZATO IL FILM I TUOI SENTIMENTI VERSO I RIFUGIATI?
"Ho  cominciato a  rendermi  conto  della questione  dei rifugiati quando, nell’ambito di una vasta installazione teatrale, ho messo in scena  Viaggio d’inverno  di Franz Schubert. L’Europa era agli albori della crisi. Durante il lavoro di preparazione e la costruzione delle scenografie ci siamo recati in un campo per rifugiati a Bicske, in Ungheria, per una o due settimane. Quello che ho visto lì mi ha sconvolto. Ho avuto l’impressione che essere straniero, diverso, fosse uno stato d’essere. C’era una strana forma di santità in quelle persone perché si trovavano in un luogo fuori dal tempo e dallo spazio. L’immagine o l’allegoria della  privazione è  molto  vicina  alla  liturgia  cristiana, che conosco bene perché mi è stata inculcata nell’infanzia. Non hai né un passato né un futuro, c’è solo il presente, ma anch’esso è incerto. Non sai neanche se sei ancora te stesso, se sei la persona che eri quando sei partito, o se sei diventato qualcun altro durante il viaggio. Non si può essere testimoni di questo senza sentirsi solidali. Sarebbe disumano".

IN CHE MODO QUESTO FILM ASSOMIGLIA A  WHITE GOD?
"Nel caso di  White God, ho iniziato a lavorare su una struttura a più livelli, e penso che ciò sia ancora più evidente in Una luna chiamata Europa. Cercavo una forma in grado di tradurre la mia sensazione che siamo in piena “caduta”. Questa forma non poteva però limitarsi a quella del cinema di genere. Si può anche dire che essa non sia compatibile con le forme pure del genere. Penso che  Una luna chiamata Europa  utilizzi gli stereotipi e certi elementi del genere, ma essi non costituiscono che un livello fra gli altri del film, non diversamente da  White God. Per me la verità risiede nella mescolanza dei generi, non in una forma magniloquente, ma nell’analisi parabolica delle realtà intrecciate. Trovo questo percorso molto interessante e oggi constato che è valsa la pena seguirlo".

IN  UNA LUNA CHIAMATA EUROPA  HAI USATO PIÙ EFFETTI SPECIALI CHE IN  WHITE GOD. PARLACI DI QUESTA ESPERIENZA.
"In  White God  non abbiamo praticamente utilizzato effetti digitali. Abbiamo pianificato  Una luna chiamata Europa  allo stesso modo, dandoci da fare per trovare una soluzione. Evidentemente,  è  arduo  mostrare  qualcuno  che  sta  volando senza ricorrere agli effetti speciali! E  il personaggio principale in  diverse  scene  si  sposta  a  trenta  o  quaranta  metri  da  terra. Ai miei occhi gli effetti speciali non hanno lo stesso valore, dipende  da come  li si usa.  Se  usati  appropriatamente, possono  costituire  un immenso  spazio creativo. Altrimenti, risultano  di  cattivo  gusto,  artificiali.  In  questo  film  girato  in 35mm coesistono classico e moderno. Abbiamo fatto ricorso agli effetti speciali solo in caso di necessità, e sempre in relazione con la realtà".

GIRARE UN THRILLER TI HA DATO L’OPPORTUNITÀ DI FILMARE ALCUNE ESALTANTI SCENE D’INSEGUIMENTO, A PIEDI O A BORDO DI VEICOLI. QUESTO TIPO DI SCENE MOLTO COREOGRAFICHE RICORRE NELLA TUA FILMOGRAFIA. RACCONTACI QUESTO ASPETTO DEL SUO LAVORO.
"Fare un film di questa dimensione è stata una sfida enorme. Non avevo mai costruito scene così ampie. Ero anche entusiasta all’idea di ri-pensare un tipo di sequenze molto conosciute dal pubblico e ben eseguite da tanti registi prima di  me.  Come creare  una  scena d’inseguimento  d’auto  che non sembri un inseguimento d’auto? Non ha senso entrare in competizione per imitare scene d’inseguimento che sono già state  fatte  alla  perfezione.  Dovevamo  trovare  delle  soluzioni tutte nostre. A questa difficoltà si aggiungeva il fatto che il film è  già  molto  coreografato  per  via  della  sua  natura  multiforme. Gli sfondi sono importanti quanto lo sono i primi piani. Ogni angolo apparentemente realista e tutti i minuscoli dettagli dovevano essere rilavorati e inseriti nell’insieme. Abbiamo Sì, il mio lavoro nel teatro e nell’opera continua. Dopo White God  mi sono occupato di tre spettacoli. L’opera è un’esperienza  straordinaria. Ho  compreso che  l’amo davvero perché mi permette di vivere delle cose che solo molto raramente si incontrano nella vita vera. In Ungheria ho anche una mia compagnia teatrale, il Proton Theatre. Due dei nostri progetti recenti erano  Viaggio d’inverno, basato sul ciclo per piano e voce (i lieder) di Schubert, e  Lo specchio della vita, adattamento molto libero del melodramma di Douglas Sirk. In realtà, è l’interpretazione forzata di un nuovo linguaggio teatrale: quattro personaggi, due scene, minimalista in ogni aspetto. A questo punto, non so per quanto tempo sarà possibile mantenere l’armonia fra lavoro teatrale e cinematografico, anche se è vero che le due esperienze si nutrono mutualmente, permettono di  equilibrare i successi  e gli  insuccessi. Questo dialogo permanente  è  per  me  estremamente  produttivo  e  fonte d’ispirazione.  Attualmente,  sto  lavorando  a  I  tessitori  di Gerhart Hauptmann che andrà in scena ad Amburgo".

PROGETTI FUTURI?
"Mi piacerebbe adattare il romanzo di Vladimir Sorokin Ghiaccio. Ci penso da dieci anni e credo sia giunto il momento di farlo. In realtà, il film rappresenterebbe il terzo capitolo di  una  trilogia  sulla fede iniziata  con  con  White  God e proseguita con Una luna chiamata Europa. Mi sento pronto alla sfida, a portarla avanti, a continuare su questa strada. Una cosa è certa: ho un’incredibile fame di raccontare nuove storie. Immediatamente".


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