martedì 17 giugno 2025

"28 anni dopo" - Incontro stampa con Danny Boyle

 di Silvia Sottile

 

Danny Boyle in conferenza stampa - Foto di Silvia Sottile per Emozioni al Cinema


Il film Sony Pictures 28 Anni Dopo (qui la nostra recensione), diretto dal regista premio Oscar Danny Boyle (Trainspotting, The Millionaire), scritto da Alex Garland (Ex MachinaCivil WarWarfare) e prodotto da Cillian Murphy, sarà nelle sale italiane dal 18 giugno, distribuito da Eagle Pictures.

Il film horror, che segue gli eventi del mondo infettato di 28 Giorni Dopo (2007), è interpretato da Jodie Comer (The Last Duel), Aaron Taylor-Johnson (Avengers: Age of UltronKraven - Il CacciatoreNosferatu), Jack O'Connell (Ferrari), Alfie Williams (Queste oscure materie) e Ralph Fiennes (La saga di Harry PotterConclave).

Il regista Danny Boyle e lo sceneggiatore Alex Garland, si riuniscono per 28 Anni Dopo (28 Years Later), una nuova terrificante storia ambientata nel mondo di 28 Giorni Dopo (28 Days Later). Sono passati quasi tre decenni da quando il virus della rabbia è fuoriuscito da un laboratorio di armi biologiche e ora, ancora in una quarantena forzata e brutale, alcuni sono riusciti a sopravvivere in mezzo agli infetti. Un gruppo di sopravvissuti vive su una piccola isola collegata alla terraferma da un'unica strada rialzata ed estremamente protetta. Quando uno di questi lascia l'isola per una missione diretta nel profondo della terraferma, scoprirà segreti, meraviglie e orrori che hanno mutato non solo gli infetti ma anche gli altri sopravvissuti.

Abbiamo avuto il piacere di incontrare il regista premio Oscar Danny Boyle. Ecco cosa ci ha raccontato in conferenza stampa:

Cosa l’ha spinta, 23 anni dopo, a girare un nuovo capitolo di un film che negli anni è diventato un vero e proprio cult che va ben oltre il genere horror?

In realtà il film originale, nonostante siano passati tantissimi anni, ha continuato ad essere molto popolare e molto visto. Nonostante sia in DVD, vengono fatte spesso proiezioni, seguite da una sessione di Q&A. Ha sempre suscitato un interesse particolare. Con Alex Garland abbiamo parlato spesso della possibilità di realizzare un sequel del film originale. Lui ha tirato fuori una serie di idee e ci abbiamo lavorato insieme. Soltanto quando è venuta fuori questa idea, ci siamo caricati. Lui si è caricato di energia e ha scritto una storia molto più ampia di quello che ci si potesse aspettare, proprio perché volevamo realizzare qualcosa che fosse una grande esperienza, ambientata in un periodo lontano molti anni. Quello che ci interessava soprattutto inserire nella storia era la Brexit… e i Teletubbies!”.

Come spiega la fascinazione degli spettatori per il genere horror e i film catastrofici? È un modo per esorcizzare le proprie paure? Perché la gente è così attratta da questi film?

Sì, penso che il motivo per cui l’horror sia così seguito è proprio perché attrae il pubblico e attira le persone. Quando abbiamo realizzato il primo film, era stato detto a chiare lettere che le donne non sarebbero mai andate a vederlo, perché le donne non guardano horror. Oggi invece la situazione è molto diversa, è molto cambiata. Sono molte le donne che vanno a vedere i film horror. Si fa una misurazione del pubblico. Anche quando abbiamo fatto i test screening in America, il gruppo delle donne che rimaneva alla fine della proiezione, faceva sentire la propria opinione sull’horror e discutevano se fosse il caso di definirlo horror o meno. Perché questo è sì un film horror, ma è anche molte altre cose. Perché l’horror piace? È un qualcosa che ti spinge, non puoi fare a meno di andare al cinema, e lì puoi esorcizzare le tue paure, la tua avversione per tutti gli orrori di gran lunga peggiori che invece sono reali e sono presenti nel mondo che ci circonda. Inoltre l’horror è un genere molto flessibile, che puoi ampliare per ricomprendere molte più cose”.

Come si spiega il fatto che adesso le donne vogliono vedere film horror?

Perché credo che ci stiamo liberando sempre più delle aspettative di genere nei confronti delle donne. Cosa dovrebbero o cosa non dovrebbero fare. Sono interessate anche perché chi, più delle donne, conosce bene la sofferenza, il dolore? Quindi, perché no?”.

 

Danny Boyle in conferenza stampa - Foto di Silvia Sottile per Emozioni al Cinema

 

Il giovanissimo Alfie Williams è straordinario nei panni di un ragazzino cresciuto in una comunità post apocalittica. Definirebbe la sua storia una sorta di romanzo di formazione in un universo dove esiste solo la paura e la sopravvivenza?

La nostra intenzione è quella di realizzare una trilogia, anche se ciascun film poi è autonomo. Questo è il primo, abbiamo già girato il secondo, stiamo raccogliendo i fondi per il terzo. Comunque sì, il viaggio del ragazzino è fondamentalmente il viaggio del film. Ci si aspetta che il ragazzino segua le orme del padre e una comunità che guarda all’Inghilterra del passato, degli anni ’50. Questa è la Brexit. Una comunità in cui i ruoli di genere sono ben definiti e separati. Ai ragazzi si insegna a cacciare, uccidere, difendere. Le ragazze invece devono fare altro. Questa è la vecchia Inghilterra. Invece le decisioni che lui prende sono molto più formate dal progresso, dall’andare avanti per trovare la sua strada. Circa 20 anni fa ho fatto il casting di alcuni ragazzi per un film. La differenza nella capacità di recitare tra i bambini all’epoca e i ragazzini di oggi, è veramente enorme, abissale. Molto probabilmente sarà stato l’effetto di Harry Potter. Oggi i ragazzini crescono con Harry Potter. E si dicono ‘perché non lo posso fare anch’io?’. Quindi c’è un livello di recitazione tra i ragazzi che è veramente sorprendente”.

Dagli eventi mondiali attuali sembra che la pandemia abbia davvero peggiorato l’umanità. Quanto hanno influito il post Covid, i sovranismi, la Brexit, nella scrittura di questo film con Alex Garland?

Assolutamente sì, moltissimo. Quando abbiamo fatto il primo film, la sequenza iniziale mostra una Londra completamente deserta. Questa è stata una cosa molto forte che con il Covid è diventata un’immagine comune a tantissime altre città. Praticamente un’impressionante rappresentazione di quello che era il pericolo. Questo ovviamente è andato ad alimentare il nuovo film. Ma ancor di più lo ha alimentato il modo in cui noi ci siamo adattati al Covid con il tempo. Perché naturalmente la reazione non poteva continuare ad essere quella iniziale di sorpresa e quasi di paralisi. Perché dopo 28 anni, dopo un periodo così lungo non si poteva reagire all’infezione e al virus come all’inizio. Per cui la reazione è stata quella di cominciare a correre qualche rischio, cercare di uscire, andare a caccia e quindi riunirsi in gruppo. La cosa più interessante è che anche il virus si è adattato. È mutato, si è evoluto per cercare di sopravvivere. Anche gli infetti si sono organizzati. Quindi sicuramente il Covid ha avuto una fortissima influenza sulla scrittura”.

Voi avete dato a questo virus il nome della rabbia. Anche in questo caso è un nome profetico perché vediamo che ormai la rabbia è ovunque, è diventata una compagna di vita quotidiana, sia nel piccolo che a livello di governi. Questo, anche da autore, la preoccupa?

Quando abbiamo fatto il primo film in realtà pensavamo alla rabbia che ti si scatena quando sei al volante per strada, dove parte la furia ogni volta che sei alla guida. Poi però ci siamo resi conto che la rabbia era praticamente l’impostazione per default della nostra quotidianità. Si va da zero a cento senza passare per nessuno stadio intermedio. Ci sono molte teoria ma credo che la colpa sia della tecnologia che ci ha dato individualmente tantissimo potere. Abbiamo questo strumento che ci fa sentire importantissimi, poi però ci rendiamo conto di non essere la persona più importante del mondo. Questo è quello che la vita ci dice, anche perché andiamo a finire tutti nello stesso posto, che tu sia ricco, famoso, bello o l’esatto contrario… Credo sia questo quello che volevamo indicare. L’obiettivo era un gesto umile, carico di speranza. Di fronte al Parlamento a Londra c’è un muro che è una sorta di memorial alle persone che sono morte di Covid. È di fronte al St Thomas Hospital e non è stato fatto né dallo stato né da un’organizzazione ma sono state le persone comuni che sono andate lì a scrivere e ad attaccare un piccolo fogliettino a ricordo di queste persone. Questo orribile muro di cemento armato di quasi mezzo miglio è coperto da questi bigliettini rosa. È molto bello anche vederlo da lontano. È un modo non soltanto per ricordare coloro che non ci sono più ma anche per ricordare a noi che siamo tutti collegati, esattamente come il memorial all’interno del film”.

Con il suo cinema assistiamo spesso a un’esplosione di caos, energia e urgenza. Ma oggi viviamo tanta apatia e cinismo. Come li combatte come narratore?

Io sono nemico del cinismo perché sono un ottimista per natura. Anche se faccio film che sono molto dark, la mia natura è essere ottimista. E sono fortunato perché sono una persona curiosa. C’è un detto secondo il quale l’unica cura per la noia è la curiosità ma non esiste una cura alla curiosità. La curiosità è una infinita ricerca, un continuo porsi domande, un continuo cercare, quindi l’infezione che mi porto dentro non è la rabbia ma la curiosità”.

 

 Foto di Silvia Sottile

 

28 anni dopo è un film sulla resistenza. Chi per lei rappresenta oggi la resistenza nel mondo?

Credo che oggi manchino i leader che possano guidare la resistenza. Ovviamente posso parlare solo per il mio paese. Credo che ci manchino delle figure che siano fonte di ispirazione e che abbiano la capacità di portarci avanti. Ad un certo punto si è pensato che la tecnologia potesse essere questa figura di riferimento ma al momento la prospettiva mi sembra molto distante, anche perché è molto complicato il fatto che l’intelligenza artificiale offra tante opportunità di business. Ma questo va a scapito delle libertà personali o anche l’idea di poter avere delle informazioni di cui potersi fidare. Questa secondo me è una grandissima sfida. Credo che quello che ci manchi sia appunto una figura, un luogo di cui fidarsi che possa essere una guida. Io credo molto nella BBC perché è un’emittente che fornisce informazioni ma che non è di proprietà di nessuno. Non sono le aziende, non si sa chi sia il proprietario della BBC. In realtà sono le persone. Non esistono azioni né azionisti della BBC. Credo che nel nostro paese sia l’unico posto dove ancora oggi le informazioni e le immagini vengono controllate e sono sottoposte al vaglio per verificarne la veridicità. La BBC è disprezzata da chi è a destra perché la considerano troppo liberale. Sicuramente fornisce informazioni che non sono di parte né affette da pregiudizio. Secondo me questo è il luogo migliore che può offrire la resistenza. Un tipo di resistenza che non è ribelle ma un luogo con un fermo controllo della veridicità e autenticità delle informazioni, delle immagini, delle notizie, siano esse provenienti dal Presidente Trump o diffuse da qualche nefanda organizzazione russa. Loro controllano tutto e io quindi mi fido”.

In molti film horror si alternano scene spaventose ad altre tenere e commoventi. Lei in questo film, in più di una scena ha messo insieme le due cose. Era voluto che il risultato fosse devastante?

Volevamo realizzare un sequel del film originale e volevamo che questo film fosse basato sui personaggi e sulla famiglia. In 28 giorni dopo Cillian Murphy crea subito una famiglia. E volevamo riportare qui questa esperienza. Volevamo realizzare un film entusiasmante e avvincente, che attirasse i fan dell’horror, ma al contempo volevamo che parlasse della famiglia, di cosa succede all’interno di una famiglia, di come si frantuma, di come il trauma ha un impatto sulla famiglia. E di come alla fine, grazie all’amore della propria madre, il protagonista prende una strada diversa da quella del padre, seguendo la propria. Volevamo che rappresentasse una sorpresa, che il mero impatto di queste scene emotive fosse sorprendente. Jodie Comer e Ralph Fiennes sono fantastici nella loro recitazione. Volevamo realizzare un film ambizioso, che non seguisse solamente una serie di regole per renderlo un buon sequel. Volevamo veramente che avesse un respiro più ampio”.

Quando avete girato 28 giorni dopo era l’inizio dell’era digitale al cinema. Adesso, dopo 23 anni, il digitale è completamente sdoganato. Si ha la sensazione che oggi il digitale cerchi di copiare la pellicola. 28 anni dopo non lo fa. Anzi è fieramente e dichiaratamente digitale. Come è nata questa scelta? E come avete lavorato?

Abbiamo utilizzato tantissimi iPhone. Ovviamente anche moltissime macchine da presa, quelle leggere. Abbiamo utilizzato tante diverse tecnologie proprio perché non volevamo lasciare un’impronta troppo pesante visto che ci muovevamo in questi ambienti naturali, in mezzo a una natura così bella. Per esempio abbiamo utilizzato tantissimi droni. Molte scene sono state realizzate completamente dai droni e quindi non è stata necessaria la presenza della troupe: abbiamo mandato gli attori e poi con i droni abbiamo filmato tutto. Volevamo realizzare qualcosa di nuovo e diverso. Il primo film era stato il primo film realizzato in digitale con una distribuzione ampia. Ma nel frattempo la tecnologia si è evoluta e ha fatto passi da gigante. Ormai qualsiasi telefonino è in grado di girare in 4K, che è tutto quello che ti serve in termini di risoluzione per il cinema. Sì, la risoluzione è importante ma volevamo ricorrere a nuovi strumenti e nuove tecnologie. Abbiamo incontrato molto problemi ma ne è valsa veramente la pena. Ha rappresentato un’importante sfida per la troupe che ha portato i suoi risultati. Generalmente i registi realizzano magari un film ogni due anni, mentre i componenti delle troupe girano film in continuazione, quindi tendono un po’ ad adagiarsi sulle abitudini, a fare sempre le cose alla stessa maniera. In un certo senso è come se facessero sempre lo stesso film. Invece con queste tecnologie con questo metodo diverso di riprese li abbiamo destabilizzati. All’inizio la tendenza è quella di resistere al cambiamento, infatti loro non ne erano particolarmente felici. Però questa cosa è stata molto utile, anche perché noi non miravamo alla perfezione. Certo, la perfezione è importante ma ci interessavano di più le fessure, le crepe all’interno della perfezione. Per esempio Aaron Taylor-Johnson a un certo punto lo vediamo correre velocissimo. Noi gli abbiamo dato uno di questi dispositivi e ha filmato lui stesso correndo. Gran parte del girato era inutilizzabile. Ne abbiamo potuto utilizzare solo alcuni pezzetti ma sono stati utilissimi perché col metodo tradizionale non saremmo mai riusciti ad ottenere lo stesso risultato. Avremmo dovuto farlo rallentare e non sarebbe stata la stessa cosa. Lo stesso per la sequenza sul treno. Anche se le riprese non erano perfette, abbiamo ottenuto delle parti che in altro modo non sarebbero state ottenibili. Sono quelle che poi ti danno quella sensazione insostituibile”.

Chi sono per lei i veri mostri? I sopravvissuti o gli infetti?

I veri mostri li scoprirete quando vedrete il prossimo film”.

 

 


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