giovedì 23 gennaio 2025

"A Complete Unknown" - Incontro stampa

 di Silvia Sottile

Timothée Chalamet (foto di Silvia Sottile)

A Complete Unknown (qui la nostra recensione) di James Mangold con Timothée Chalamet nei panni di Bob Dylan, è al cinema dal 23 gennaio.

Abbiamo avuto il piacere di incontrare in conferenza stampa il regista, il protagonista e altri due membri del cast (Monica Barbaro che interpreta Joan Baez ed Edward Norton nel ruolo di Pete Seeger).

Ecco cosa ci hanno raccontato: 

Un processo durato 5 anni… Quale è stato il momento più complesso da affrontare prima di arrivare sul set? E la cosa di cui sei più orgoglioso ora che il risultato è straordinario?

Timothée Chalamet: “Grazie a tutti di essere qui. Una delle cose principali è stata la durata della preparazione di oltre 5 anni. Questo però ha portato maggiore fiducia in se stessi nei confronti del materiale. Quello di cui sono più orgoglioso, come lavoro di cast guidati da James, è che abbiamo dato il 150% di noi stessi. Ne sono molto orgoglioso. Sapevo che quei due-tre mesi dovevamo essere Pete Seeger, Joan Baez, ecc., abbiamo il resto della vita per essere noi stessi. A livello di dedizione, richiede un’estrema attenzione e concentrazione. Tutti ce l’abbiamo messa”.

È difficile raccontare il passato. Qual è stata la chiave per entrare nel mondo di Bob Dylan, nella sua storia?

James Mangold: “Intanto grazie, è fantastico essere qui. Nel film, Timothée che interpreta Bob dice una cosa riguardo al fatto che le persone dimenticano il passato. Si ricordano quello che vogliono del passato. È una battuta che ho scritto io pensando al modo in cui si parla molto di Bob Dylan come di un favolista, un narratore, un cantastorie. Il mio compito come regista era sempre quello di mettere in dubbio le osservazioni ovvie, per rendere una storia interessante ci deve essere qualcosa che vada oltre. Tutti noi inventiamo la nostra vita. Tutti dimenticano la parte brutta che non piace loro, e gli errori. I nostri trionfi sono ancora più trionfanti. Non c’è una verità assoluta. Anche in questo racconto. Ne ho parlato con Dylan stesso. Tutti (giornalisti, scrittori, documentaristi) si contraddicono. Gli stessi documentari vedono persone che sanno di essere davanti a una telecamera, le biografie sono testimonianza di ciascun personaggio dove ciascuno si mette al centro della storia, lasciando fuori gli errori e sottolineando soltanto il successo. Quindi trovare la verità non è una cosa correlata soltanto a Bob, riguarda tutti quanti noi nel nostro modo di raccontare e incorniciare la storia. Invece di andare a trovare la verità fattuale (abbiamo ovviamente seguito i fatti, le date della pubblicazione dei dischi, le cose nell’ordine cronologico), abbiamo cercato di trovare soprattutto il filo, il tono della verità, ed è una cosa che nessun altro media può fare. Abbiamo cercato di ricreare quello che era successo come se non ci fosse stata una macchina da presa, risentire le sensazioni e le vibrazioni di essere in strada, negli studios, del fatto che queste persone sapessero che sarebbero diventate culturalmente molto importanti”.


Timothée Chalamet (foto di Silvia Sottile)

Come sei arrivato all’essenza di Pete Seeger e del folk americano? Come è stato il tuo viaggio nelle radici musicali e culturali dell’America attraverso questo personaggio?

Edward Norton: “YouTube è stato il principale vettore della mia indagine. È veramente sorprendente quello che trovi su YouTube. Se avessimo fatto questo film 20 anni fa, mi ci sarebbe voluto un anno di lavoro per poter mettere insieme le interviste, i concerti, le performance. Adesso hai a disposizione con grande facilità quello che una persona ha fatto. È stato molto utile perché mi ha consentito di ‘ingerirlo’, elaborare la sua voce, la sua postura. La musica folk è molto significativa. Il nostro regista fantastico – ma anche un grande psicoterapeuta – ci ha detto di abbandonare la storia, il modo, i retaggi culturali ma pensare semplicemente alla storia di una persona giovane che incontra qualcuno che ammira e che lo appoggia, come quando le persone si innamorano l’una dell’altra ma sono comunque in concorrenza tra loro. Questi sono i rapporti umani fondamentali e le interazioni che dobbiamo raccontare. Bisogna dimenticare il resto. Questo è stato estremamente liberatorio per tutti noi. Liberarci di tutto il peso di ciò che hai avuto come riferimento perché non puoi fingere tutto questo. È fantastico avere chi sta al timone che ti dice di lasciar andare”.

Come è stato il lavoro su Joan Baez? So che l’hai anche incontrata…

Monica Barbaro: “È difficile non avere sempre in mente l’idea di voler essere accurata. Vuoi identificarti nel personaggio e fare qualcosa per cui sia riconoscibile. Ma se cerchi di rendere qualcosa così perfetto, lo privi di ciò che lo rende interessante. L’ha dichiarato Joan mentre giravo il film. Siamo stati stimolati a non girare una biografia o un documentario. Joan è viva e può parlare di se stessa in prima persona. Sapere che avevamo la libertà di essere umani nelle scene, potevamo fidarci di aver fatto tutta la preparazione e che eravamo sufficientemente riconoscibili. Ho visto Timothée fare un lavoro fantastico nei panni di Bob e mi sono fidata completamente del fatto che ci saremmo presentati sul set e avremmo girato queste scene, poi abbiamo seguito la sceneggiatura e le indicazioni di regia di James, tutto con una orchestrazione. Abbiamo un po’ messo da parte tutta la preparazione e abbiamo colto il momento ed è per questo che siamo riusciti a lavorare così bene. Non è che James sia sempre un gentile psicoterapeuta, a volte anche essere duri è importante. Ho ricordi sul set della sua voce roboante che mi urlava che non stavamo facendo una pagina di wikipedia. È stato utile. E abbiamo raggiunto questo risultato”.

James Mangold: “La storia di Bob Dylan cresce e cambia col tempo. Una precisazione per coloro che non conoscono la recitazione. Ovviamente volevo che loro sembrassero il loro personaggio. Ma c’è un lavoro esterno che va fatto, assumendo il feeling, i vestiti, la camminata, la voce e l’aspetto del personaggio. E poi c’è l’aspetto interiore. Il pericolo che ho percepito è che il lavoro esterno fosse così interessante e diventasse una tale ossessione da far svanire il lavoro interno. Invece era necessario trovare l’equilibrio. La mia preoccupazione era che uno dei due piatti della bilancia prevalesse sull’altro. Loro hanno lavorato duramente e in maniera estremamente disciplinata. Io volevo semplicemente assicurarci che il fiore potesse crescere all’interno di quella serra”.


Timothée Chalamet (foto di Silvia Sottile)

Hai un grandissimo seguito tra i giovani. Qual è la lezione che la storia di Bob Dylan giovane può trasmettere ai giovani di oggi? Interpretando questo personaggio hai ritrovato qualcosa di te stesso?

Timothée Chalamet: “Non so se c’è una lezione per i giovani nelle tematiche politiche, sociali e culturali dei primi lavori di Bob Dylan. Accogliere il proprio spirito creativo e trovare se stessi. Bob Dylan ha trovato il suo nome, la sua arte e la sua espressione. Era un favolista, aveva tante storie. Una lezione che si potrebbe trarre è quella dell’auto-creazione, non sentirsi limitati da quello che invece è molto limitante per noi individui. Pensare ‘chi sono?’ o ‘chi sono stato?’. Nel processo di lavorazione, come ha detto James, c’è un lavoro esterno e uno interiore. Per quanto riguarda quello esterno, io ero iper concentrato sugli aspetti visivi, documentare tutte le immagini che trovavo, me le imprimevo nell’anima. Era diventata un’influenza quotidianamente molto profonda. Penso che oggi il panorama mediatico sia diverso, in un contesto differente. Credo che se hai l’opportunità di recitare in un film o fare musica e di parlarne, è una cosa diversa. Io sono felice di parlarne, non necessariamente in modo diretto, ma di fare effettivamente promozione del film. Il modo in cui Bob proteggeva se stesso, qualsiasi cosa della sua vita che non era correlata all’espressione del suo lavoro e della sua musica. Penso che questo si rifletta anche nel fatto che non l’ho mai incontrato. Lui non aveva bisogno di incontrarmi, per lui non era rilevante. Credo che per lui la cosa più importante fosse fare la sua musica e portare avanti la sua arte”.

Cosa pensi delle sfide della musica della tua epoca in rapporto a questa del passato legata alla politica e al sociale?

Timothée Chalamet: “Negli anni ’60 – in cui io non c’ero – nell’ambiente socio politico culturale in cui si muovevano Bod Dylan, Pete Seeger, Joan Baez, c’era un certo ottimismo, sincerità, il valore etico del lavoro altrui, al punto che Bob ha fatto anche altra musica, era tutto molto intenso. Le sfide che affronta la mia generazione, sempre annoiata e vicino al telefono, sono più ampie. Forse il cinismo. E se qualcuno cerca di fare una canzone politica che riflette le sfide, le persone magari alzano gli occhi al cielo e dicono: ‘Oddio! Qual è la tua vera motivazione?’. Non voglio essere così cinico, magari qualcuno romperà questo vincolo, ma è un po’ così l’ambiente oggi”.

James Mangold: “A volte capita che le domande che ti vengono fatte e le cose che ti vengono dette, in un serto senso possano restarti dentro e ‘inquinare’ la tua percezione. L’essere guardingo di Bob Dylan era magari non proprio respingere le persone ma mantenere il proprio spazio. Bisogna proteggere la propria stella polare artistica e la cultura moderna di condividere tutto, ogni pensiero, ogni strategia, ogni sentimento che abbiamo, comporta a volte il pericolo di banalizzare le cose che invece sono magiche. Quindi trattenendocene dalla diffusione, non parlandone, mantenerle sotto segreto, è come trattenersele perché queste cose sono come la vita e non vuoi rovinarle o camminarci sopra parlandone troppo. Credo che noi viviamo in un periodo di anestesia. La mia osservazione personale è che i film, la musica, sono una specie di anestesia generale. Viviamo in un momento in cui la maggior parte delle cose che facciamo non ci disturba troppo, non ci influenza. Oggi è diverso rispetto all’epoca e anche il pubblico prima voleva essere sorpreso, oggi vuole essere anestetizzato. La parte insidiosa è cercare di realizzare dell’arte che può compiacere il pubblico che non vuole essere sfidato. E questo si cerca di combatterlo, magari con la musica cercando di non fare addormentare le persone”.


James Mangold (foto di Silvia Sottile)

Come hai lavorato per interpretare un personaggio così diviso in due? Da una parte è un ragazzo senza esperienza ma dall’altra è Bob Dylan, quindi col suo carattere, un giovane che sa benissimo chi è e cosa vuole essere.

Timothée Chalamet: “La sensazione è che lui sappia di essere destinato alla gloria, una sorta di auto manifestazione che si nota dalle prime canzoni. Il mondo di Dylan è affascinante perché lui non aveva degli archetipi di carriera che voleva inseguire, o a cui ispirarsi, come invece possiamo avere oggi. Per esempio io posso avere Joaquin Phoenix, Leonardo DiCaprio o Daniel Day-Lewis e dire che voglio seguire la strada di questi grandi attori. Bob invece ha creato tutto da zero. Lui si è inventato il percorso di chi voleva essere man mano che andava avanti. Io mi posso facilmente identificare con il desiderio di Bob di aspirare a qualcosa di più grande. Aveva un’immagine vaga nella sua mente di ciò che voleva, non sapeva esattamente cosa fosse ma sapeva cosa doveva fare per raggiungerlo. Per me non era il mondo della musica ma sicuramente New York. Ho fatto gavetta lavorando nel teatro Off-Broadway e anche nell’ufficio di casting, impegnandomi”.

Blowin' in the Wind è uno dei brani portanti del film, scritto da Dylan negli anni ’60 contro la guerra e le scelte politiche statunitensi che parla degli orrori e diritti civili. Il film è un modo per dire che è ancora attuale?

Monica Barbaro: “La sensazione è che la storia si ripeta. Credo che molto di quello che dicevano le strofe e i versi di Bob Dylan avevano a che fare con questo. Ci sono delle canzoni in cui lui parla in maniera specifica della guerra ma molte delle canzoni, come ha sottolineato James, erano vaghe. Possono far riferimento in un certo senso all’ipocrisia umana. E anche questa idea che perdoniamo il nostro comportamento, in realtà cosa stiamo facendo? Perché la pensiamo così? La sensazione è che Joan si sia innamorata delle sue parole e dei suoi versi e che lui puntava il dito non necessariamente specificatamente alla seconda guerra mondiale. Credo che quelle questioni siano senza tempo ed è questo il motivo per cui la sua musica ancora trova eco oggi. Ci sono molti commenti sociali oggi nella musica rap. Bisogna però sintonizzarsi. Magari all’epoca le persone non prestavano attenzione ma la sua voce e le sue canzoni sono durate così tanto perché dicevano determinate cose, attingevano da un determinato periodo”.

Edward Norton: “È difficile. Dylan stesso è un personaggio a cui è difficile aggrapparsi e considerarlo come stella polare. Timothée ha ragione, viviamo in periodi diversi. Ma per quel che mi riguarda, io ho questa sensazione che mi porta a tornare a lui, a Bob Dylan, come fonte di ispirazione. Sono fortemente d’accordo con lui nella convinzione che parlare del significato, riduce il potere delle sue canzoni. Il loro potere è che voi ci troviate il vostro significato nelle sue canzoni. Lo stesso vale per il film. Non possiamo dire nulla sul messaggio del film che non lo riduca. Credo sia di gran lunga meglio che ciascuno tragga il significato proprio dal film. Se c’è un messaggio politico, bene. Se c’è qualcosa che li tocca emotivamente, lo devono capire. Se non vi vedete voi stessi all’interno di questa cosa, non ha grande valore. Sono tendenzialmente riluttante ad imporre un’interpretazione ad una cosa alla cui realizzazione ho partecipato. Credo che questo privi il pubblico dell’opportunità di trovarne il proprio significato”.


Monica Barbaro (foto di Silvia Sottile)

Le persone intorno a Bob Dylan, soprattutto nel mondo della discografia, gli dicevano come doveva essere. Nel corso della vostra carriera vi è successo?

Monica Barbaro: “È molto comune nell’industria. Interpreti un ruolo e quello successivo sembra quasi identico a quello precedente. Dopo aver interpretato Top Gun: Maverick, i successivi 5 progetti che mi sono arrivati sulla scrivania erano di tipo militare. Adesso mi dicono tutti se voglio essere in un musical, mentre io non ci pensavo proprio. Speri di essere in grado di seguire l’immaginazione degli altri. Quello che rende James Mangold un regista fantastico è che non puoi inscatolare il suo lavoro. Lui porta sempre qualcosa di se stesso e dei suoi precedenti progetti, però lo porta in un genere completamente diverso che non puoi inscatolare. E questo per me è grande fonte di ispirazione”.

James Mangold: “Per me questo film è particolarmente interessante, espresso dalla sua voce, perché è l’evoluzione di un artista e lo trovo fantastico”.

Neil Young, uno dei più celebri cantautori del mondo, ha scritto sul suo blog delle parole bellissime sul film. C’è un altro endorsement che ti ha particolarmente colpito rispetto alla tua interpretazione di Bob Dylan?

Timothée Chalamet: “Aspetto l’endorsement di Francesco Totti, spero che veda il film. Neil Young è un personaggio fantastico di quella generazione. Bob Dylan forse era più criptico. È fantastico e molto toccante vedere nel pubblico persone – non proprio ragazzini – che hanno subito l’impatto e l’influenza di Bob Dylan e che hanno vissuto quel periodo è stato bellissimo”.


Edward Norton (foto di Silvia Sottile)


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