di Silvia Sottile
A Complete Unknown (qui la nostra recensione) di James Mangold con Timothée Chalamet nei panni di Bob Dylan, è al cinema dal 23 gennaio.
Abbiamo avuto il piacere di incontrare in conferenza
stampa il regista, il protagonista e altri due membri del cast (Monica Barbaro
che interpreta Joan Baez ed Edward Norton nel ruolo di Pete Seeger).
Ecco cosa ci hanno raccontato:
Un
processo durato 5 anni… Quale è stato il momento più complesso da affrontare
prima di arrivare sul set? E la cosa di cui sei più orgoglioso ora che il
risultato è straordinario?
Timothée Chalamet: “Grazie a tutti di essere qui. Una delle cose principali è stata la
durata della preparazione di oltre 5 anni. Questo però ha portato maggiore
fiducia in se stessi nei confronti del materiale. Quello di cui sono più
orgoglioso, come lavoro di cast guidati da James, è che abbiamo dato il 150% di
noi stessi. Ne sono molto orgoglioso. Sapevo che quei due-tre mesi dovevamo
essere Pete Seeger, Joan Baez, ecc., abbiamo il resto della vita per essere noi
stessi. A livello di dedizione, richiede un’estrema attenzione e
concentrazione. Tutti ce l’abbiamo messa”.
È
difficile raccontare il passato. Qual è stata la chiave per entrare nel mondo
di Bob Dylan, nella sua storia?
James Mangold: “Intanto
grazie, è fantastico essere qui. Nel film, Timothée che interpreta Bob dice una
cosa riguardo al fatto che le persone dimenticano il passato. Si ricordano
quello che vogliono del passato. È una battuta che ho scritto io pensando al
modo in cui si parla molto di Bob Dylan come di un favolista, un narratore, un
cantastorie. Il mio compito come regista era sempre quello di mettere in dubbio
le osservazioni ovvie, per rendere una storia interessante ci deve essere
qualcosa che vada oltre. Tutti noi inventiamo la nostra vita. Tutti dimenticano
la parte brutta che non piace loro, e gli errori. I nostri trionfi sono ancora
più trionfanti. Non c’è una verità assoluta. Anche in questo racconto. Ne ho
parlato con Dylan stesso. Tutti (giornalisti, scrittori, documentaristi) si
contraddicono. Gli stessi documentari vedono persone che sanno di essere
davanti a una telecamera, le biografie sono testimonianza di ciascun
personaggio dove ciascuno si mette al centro della storia, lasciando fuori gli
errori e sottolineando soltanto il successo. Quindi trovare la verità non è una
cosa correlata soltanto a Bob, riguarda tutti quanti noi nel nostro modo di
raccontare e incorniciare la storia. Invece di andare a trovare la verità
fattuale (abbiamo ovviamente seguito i fatti, le date della pubblicazione dei
dischi, le cose nell’ordine cronologico), abbiamo cercato di trovare
soprattutto il filo, il tono della verità, ed è una cosa che nessun altro media
può fare. Abbiamo cercato di ricreare quello che era successo come se non ci
fosse stata una macchina da presa, risentire le sensazioni e le vibrazioni di
essere in strada, negli studios, del fatto che queste persone sapessero che
sarebbero diventate culturalmente molto importanti”.
Come
sei arrivato all’essenza di Pete Seeger e
del folk americano? Come è stato il tuo viaggio nelle radici musicali e
culturali dell’America attraverso questo personaggio?
Edward Norton: “YouTube
è stato il principale vettore della mia indagine. È veramente sorprendente
quello che trovi su YouTube. Se avessimo fatto questo film 20 anni fa, mi ci
sarebbe voluto un anno di lavoro per poter mettere insieme le interviste, i
concerti, le performance. Adesso hai a disposizione con grande facilità quello
che una persona ha fatto. È stato molto utile perché mi ha consentito di
‘ingerirlo’, elaborare la sua voce, la sua postura. La musica folk è molto
significativa. Il nostro regista fantastico – ma anche un grande psicoterapeuta
– ci ha detto di abbandonare la storia, il modo, i retaggi culturali ma pensare
semplicemente alla storia di una persona giovane che incontra qualcuno che ammira e che
lo appoggia, come quando le persone si innamorano l’una dell’altra ma sono
comunque in concorrenza tra loro. Questi sono i rapporti umani fondamentali e
le interazioni che dobbiamo raccontare. Bisogna dimenticare il resto. Questo è
stato estremamente liberatorio per tutti noi. Liberarci di tutto il peso di ciò
che hai avuto come riferimento perché non puoi fingere tutto questo. È
fantastico avere chi sta al timone che ti dice di lasciar andare”.
Come
è stato il lavoro su Joan Baez? So che l’hai anche incontrata…
Monica Barbaro: “È
difficile non avere sempre in mente l’idea di voler essere accurata. Vuoi
identificarti nel personaggio e fare qualcosa per cui sia riconoscibile. Ma se
cerchi di rendere qualcosa così perfetto, lo privi di ciò che lo rende
interessante. L’ha dichiarato Joan mentre giravo il film. Siamo stati stimolati
a non girare una biografia o un documentario. Joan è viva e può parlare di se
stessa in prima persona. Sapere che avevamo la libertà di essere umani nelle
scene, potevamo fidarci di aver fatto tutta la preparazione e che eravamo
sufficientemente riconoscibili. Ho visto Timothée fare un lavoro fantastico nei
panni di Bob e mi sono fidata completamente del fatto che ci saremmo presentati
sul set e avremmo girato queste scene, poi abbiamo seguito la sceneggiatura e
le indicazioni di regia di James, tutto con una orchestrazione. Abbiamo un po’
messo da parte tutta la preparazione e abbiamo colto il momento ed è per questo
che siamo riusciti a lavorare così bene. Non è che James sia sempre un gentile
psicoterapeuta, a volte anche essere duri è importante. Ho ricordi sul set
della sua voce roboante che mi urlava che non stavamo facendo una pagina di
wikipedia. È stato utile. E abbiamo raggiunto questo risultato”.
James Mangold: “La
storia di Bob Dylan cresce e cambia col tempo. Una precisazione per coloro che
non conoscono la recitazione. Ovviamente volevo che loro sembrassero il loro
personaggio. Ma c’è un lavoro esterno che va fatto, assumendo il feeling, i
vestiti, la camminata, la voce e l’aspetto del personaggio. E poi c’è l’aspetto
interiore. Il pericolo che ho percepito è che il lavoro esterno fosse così
interessante e diventasse una tale ossessione da far svanire il lavoro interno.
Invece era necessario trovare l’equilibrio. La mia preoccupazione era che uno
dei due piatti della bilancia prevalesse sull’altro. Loro hanno lavorato
duramente e in maniera estremamente disciplinata. Io volevo semplicemente
assicurarci che il fiore potesse crescere all’interno di quella serra”.
Hai
un grandissimo seguito tra i giovani. Qual è la lezione che la storia di Bob
Dylan giovane può trasmettere ai giovani di oggi? Interpretando questo
personaggio hai ritrovato qualcosa di te stesso?
Timothée Chalamet: “Non so se c’è una lezione per i giovani nelle tematiche politiche,
sociali e culturali dei primi lavori di Bob Dylan. Accogliere il proprio
spirito creativo e trovare se stessi. Bob Dylan ha trovato il suo nome, la sua
arte e la sua espressione. Era un favolista, aveva tante storie. Una lezione
che si potrebbe trarre è quella dell’auto-creazione, non sentirsi limitati da
quello che invece è molto limitante per noi individui. Pensare ‘chi sono?’ o
‘chi sono stato?’. Nel processo di lavorazione, come ha detto James, c’è un
lavoro esterno e uno interiore. Per quanto riguarda quello esterno, io ero iper
concentrato sugli aspetti visivi, documentare tutte le immagini che trovavo, me
le imprimevo nell’anima. Era diventata un’influenza quotidianamente molto
profonda. Penso che oggi il panorama mediatico sia diverso, in un contesto
differente. Credo che se hai l’opportunità di recitare in un film o fare musica
e di parlarne, è una cosa diversa. Io sono felice di parlarne, non
necessariamente in modo diretto, ma di fare effettivamente promozione del film.
Il modo in cui Bob proteggeva se stesso, qualsiasi cosa della sua vita che non
era correlata all’espressione del suo lavoro e della sua musica. Penso che
questo si rifletta anche nel fatto che non l’ho mai incontrato. Lui non aveva
bisogno di incontrarmi, per lui non era rilevante. Credo che per lui la cosa
più importante fosse fare la sua musica e portare avanti la sua arte”.
Cosa
pensi delle sfide della musica della tua epoca in rapporto a questa del passato
legata alla politica e al sociale?
Timothée Chalamet: “Negli anni ’60 – in cui io non c’ero – nell’ambiente socio politico
culturale in cui si muovevano Bod Dylan, Pete Seeger, Joan Baez, c’era un certo
ottimismo, sincerità, il valore etico del lavoro altrui, al punto che Bob ha
fatto anche altra musica, era tutto molto intenso. Le sfide che affronta la mia
generazione, sempre annoiata e vicino al telefono, sono più ampie. Forse il
cinismo. E se qualcuno cerca di fare una canzone politica che riflette le
sfide, le persone magari alzano gli occhi al cielo e dicono: ‘Oddio! Qual è la
tua vera motivazione?’. Non voglio essere così cinico, magari qualcuno romperà
questo vincolo, ma è un po’ così l’ambiente oggi”.
James Mangold: “A
volte capita che le domande che ti vengono fatte e le cose che ti vengono
dette, in un serto senso possano restarti dentro e ‘inquinare’ la tua
percezione. L’essere guardingo di Bob Dylan era magari non proprio respingere
le persone ma mantenere il proprio spazio. Bisogna proteggere la propria stella
polare artistica e la cultura moderna di condividere tutto, ogni pensiero, ogni
strategia, ogni sentimento che abbiamo, comporta a volte il pericolo di
banalizzare le cose che invece sono magiche. Quindi trattenendocene dalla
diffusione, non parlandone, mantenerle sotto segreto, è come trattenersele
perché queste cose sono come la vita e non vuoi rovinarle o camminarci sopra
parlandone troppo. Credo che noi viviamo in un periodo di anestesia. La mia
osservazione personale è che i film, la musica, sono una specie di anestesia
generale. Viviamo in un momento in cui la maggior parte delle cose che facciamo
non ci disturba troppo, non ci influenza. Oggi è diverso rispetto all’epoca e
anche il pubblico prima voleva essere sorpreso, oggi vuole essere
anestetizzato. La parte insidiosa è cercare di realizzare dell’arte che può
compiacere il pubblico che non vuole essere sfidato. E questo si cerca di
combatterlo, magari con la musica cercando di non fare addormentare le persone”.
Come
hai lavorato per interpretare un personaggio così diviso in due? Da una parte è
un ragazzo senza esperienza ma dall’altra è Bob Dylan, quindi col suo
carattere, un giovane che sa benissimo chi è e cosa vuole essere.
Timothée Chalamet: “La sensazione è che lui sappia di essere destinato alla gloria, una
sorta di auto manifestazione che si nota dalle prime canzoni. Il mondo di Dylan
è affascinante perché lui non aveva degli archetipi di carriera che voleva inseguire,
o a cui ispirarsi, come invece possiamo avere oggi. Per esempio io posso avere
Joaquin Phoenix, Leonardo DiCaprio o Daniel Day-Lewis e dire che voglio seguire
la strada di questi grandi attori. Bob invece ha creato tutto da zero. Lui si è
inventato il percorso di chi voleva essere man mano che andava avanti. Io mi
posso facilmente identificare con il desiderio di Bob di aspirare a qualcosa di
più grande. Aveva un’immagine vaga nella sua mente di ciò che voleva, non
sapeva esattamente cosa fosse ma sapeva cosa doveva fare per raggiungerlo. Per
me non era il mondo della musica ma sicuramente New York. Ho fatto gavetta
lavorando nel teatro Off-Broadway e anche nell’ufficio di casting, impegnandomi”.
Blowin'
in the Wind è uno dei brani portanti del film,
scritto da Dylan negli anni ’60 contro la guerra e le scelte politiche
statunitensi che parla degli orrori e diritti civili. Il film è un modo per
dire che è ancora attuale?
Monica Barbaro: “La sensazione è che la storia si ripeta.
Credo che molto di quello che dicevano le strofe e i versi di Bob Dylan avevano
a che fare con questo. Ci sono delle canzoni in cui lui parla in maniera
specifica della guerra ma molte delle canzoni, come ha sottolineato James, erano
vaghe. Possono far riferimento in un certo senso all’ipocrisia umana. E anche
questa idea che perdoniamo il nostro comportamento, in realtà cosa stiamo
facendo? Perché la pensiamo così? La sensazione è che Joan si sia innamorata
delle sue parole e dei suoi versi e che lui puntava il dito non necessariamente
specificatamente alla seconda guerra mondiale. Credo che quelle questioni siano
senza tempo ed è questo il motivo per cui la sua musica ancora trova eco oggi.
Ci sono molti commenti sociali oggi nella musica rap. Bisogna però
sintonizzarsi. Magari all’epoca le persone non prestavano attenzione ma la sua
voce e le sue canzoni sono durate così tanto perché dicevano determinate cose,
attingevano da un determinato periodo”.
Edward Norton: “È difficile. Dylan stesso è un personaggio a cui è difficile aggrapparsi e considerarlo come stella polare. Timothée
ha ragione, viviamo in periodi diversi. Ma per quel che mi riguarda, io ho
questa sensazione che mi porta a tornare a lui, a Bob Dylan, come fonte di
ispirazione. Sono fortemente d’accordo con lui nella convinzione che parlare
del significato, riduce il potere delle sue canzoni. Il loro potere è che voi
ci troviate il vostro significato nelle sue canzoni. Lo stesso vale per il
film. Non possiamo dire nulla sul messaggio del film che non lo riduca. Credo
sia di gran lunga meglio che ciascuno tragga il significato proprio dal film.
Se c’è un messaggio politico, bene. Se c’è qualcosa che li tocca emotivamente,
lo devono capire. Se non vi vedete voi stessi all’interno di questa cosa, non
ha grande valore. Sono tendenzialmente riluttante ad imporre un’interpretazione
ad una cosa alla cui realizzazione ho partecipato. Credo che questo privi il
pubblico dell’opportunità di trovarne il proprio significato”.
Le
persone intorno a Bob Dylan, soprattutto nel mondo della discografia, gli
dicevano come doveva essere. Nel corso della vostra carriera vi è successo?
Monica Barbaro: “È
molto comune nell’industria. Interpreti un ruolo e quello successivo sembra
quasi identico a quello precedente. Dopo aver interpretato Top Gun: Maverick, i
successivi 5 progetti che mi sono arrivati sulla scrivania erano di tipo
militare. Adesso mi dicono tutti se voglio essere in un musical, mentre io non
ci pensavo proprio. Speri di essere in grado di seguire l’immaginazione degli
altri. Quello che rende James Mangold un regista fantastico è che non puoi
inscatolare il suo lavoro. Lui porta sempre qualcosa di se stesso e dei suoi
precedenti progetti, però lo porta in un genere completamente diverso che non
puoi inscatolare. E questo per me è grande fonte di ispirazione”.
James Mangold: “Per
me questo film è particolarmente interessante, espresso dalla sua voce, perché
è l’evoluzione di un artista e lo trovo fantastico”.
Neil
Young, uno dei più celebri cantautori del mondo, ha scritto sul suo blog delle
parole bellissime sul film. C’è un altro endorsement che ti ha particolarmente
colpito rispetto alla tua interpretazione di Bob Dylan?
Timothée Chalamet: “Aspetto l’endorsement di Francesco Totti, spero che veda il film. Neil
Young è un personaggio fantastico di quella generazione. Bob Dylan forse era
più criptico. È fantastico e molto toccante vedere nel pubblico persone – non
proprio ragazzini – che hanno subito l’impatto e l’influenza di Bob Dylan e che
hanno vissuto quel periodo è stato bellissimo”.
Nessun commento:
Posta un commento