Dal 1° maggio è nelle
nostre sale, distribuito da Europictures, A Beautiful Day (You Were Never Really Here), film
diretto da Lynne Ramsay con Joaquin Phoenix, entrambi premiati al Festival di
Cannes, rispettivamente per la miglior sceneggiatura e la miglior
interpretazione maschile.
Joe (un intenso Joaquin Phoenix) è un ex
marine tormentato da continui flashback del suo passato violento. Disposto a
sacrificarsi pur di salvare delle vite innocenti, Joe si guadagna da vivere
liberando delle giovani ragazze dalla schiavitù sessuale. Qui la nostra recensione.
Abbiamo avuto il piacere
di incontrare a Roma sia la regista che il protagonista. Ecco cosa ci hanno
raccontato Lynne Ramsay e Joaquin Phoenix nel corso dell’interessante conferenza
stampa:
Come ti è venuta l’idea di fare questo
film?
L. R.: “Oggi siamo abituati ad assistere a film
spettacolari, tipo i film della Marvel, a me invece piace molto fare un tipo di
cinema dove ci sia la musica, la recitazione, il montaggio, tutti elementi che
si uniscono e creano qualcosa di particolare”.
Come hai costruito il personaggio di
Joe?
J. P.: “Devo essere onesto, non so bene come è
cresciuto e come si è sviluppato il personaggio. Innanzitutto sono partito
dalla sceneggiatura e poi, grazie a Lynne, abbiamo chiacchierato, infinite
conversazioni che sembravano non portare da nessuna parte, quasi come i meandri
di un labirinto. Poi ogni tanto, come una scintilla, compariva un’idea che
aveva a che fare con il personaggio. Poi
mi sono anche impegnato nella lettura: ho studiato molto sullo sviluppo del
cervello in età infantile, come il cervello del bambini si sviluppa e come le
esperienze di abuso hanno un’influenza. Questa è stata una cosa interessante perché
è una cosa che ha un impatto sul modo di ragionare del personaggio. Abbiamo parlato
di come il cervello si muove dopo tutto quello che gli è successo. Ci siamo
resi conto che visto quello che aveva subito c’erano determinate cose per cui
lui non ragionava, non prendeva decisioni basate sul ragionamento come quando
entra in casa con il solo martello in mano, non è stata una grande decisione
quella che lui ha preso. Tutto quello che ha vissuto e subìto si ripercuote sul
personaggio. Ne abbiamo parlato veramente a lungo. Lynne mi mandava dei file
audio in cui c’erano anche i fuochi d’artificio e mi diceva ‘questo è quello
che lui sente continuamente nella sua testa’. È stato questo lungo processo di
costruzione che abbiamo fatto insieme”.
Lynne, ti sei ispirata solo al libro o
anche a fatti di cronaca? Joaquin, il tuo personaggio è ossessionato da una
frase che gli diceva il padre da piccolo, tu hai ricevuto da bambino degli
insegnamenti dai tuoi genitori che hanno continuato ad accompagnarti nella
vita?
L. R. “Il libro è stato un punto di partenza ma
rispetto al libro io ho cambiato moltissimo, ho ampliato il rapporto di Joe con
la madre, ecc… Il libro è stato più una fonte di ispirazione anche perché poi
la sceneggiatura si è continuamente evoluta e modificata strada facendo con un
considerevole apporto sia del direttore della fotografia che dello scenografo e
anche Joaquin che è intervenuto quasi subito, fin dall’inizio lui ha iniziato a
partecipare e a prepararsi fisicamente. C’è stato uno scambio continuo che ha
portato a un’evoluzione e a un ampliamento continuo della sceneggiatura”.
J. P.: “L’unica cosa che mi ricordo che i miei
genitori mi ripetevano e che continua ad accompagnarmi è ‘non fare agli altri
quello che non vorresti fosse fatto a te’. E un’altra cosa: ‘segui la tua cazzo
di verità’ anche se forse ‘cazzo’ loro non lo dicevano, magari qualche volta sì
ma a me piace mettercelo’.
Nel film Joe si autodefinisce un sicario
però poi somiglierà più a un giustiziere. Che definizione preferisci per il tuo
personaggio? E che posto ha la tenerezza? Nonostante lui sia un duro che colpisce
senza pietà vediamo una tenerezza infinita nei confronti della ragazza che
salva e soprattutto nei confronti di sua madre…
J. P: “Non so in realtà come rispondere a questa
domanda. È stato qualcosa che è venuto fuori e si è evoluto, forse da qualche
parte della sceneggiatura era già presente perché comunque c’è una parte di
buono in Joe, una cosa di cui non credo di essere stato cosciente e consapevole
dall’inizio. Probabilmente in nuce dentro la sceneggiatura c’era e Lynne questo
lo sapeva perché a volte tu sei ossessionato da alcune scene, magari ti
concentri sull’idea che possono essere complesse e di come le puoi realizzare e
magari trascuri qualcos’altro. Quello che sicuramente so che volevamo fare era
mostrare entrambi i lati, entrambe le facce di questo personaggio, non soltanto
la parte cattiva e violenta ma anche la parte buona. Lui vive in questo costante
conflitto, è alla ricerca continua della pace della mente, al contempo però si
va sempre a infilare in situazioni estremamente pericolose. Ed è proprio questa
lotta, questo conflitto che lui vive. E la cosa importante che volevamo
mostrare era il rapporto con sua madre: c’è dell’amore e della tenerezza, al
contempo però emerge anche la frustrazione che lui prova nel dover essere colui
che si deve prendere cura di questa donna anziana e malata. Abbiamo pensato che
fosse possibile cogliere e catturare entrambi questi lati nella stessa scena,
nello stesso momento. Non sempre questo succede nel cinema, a volte è difficile
e a volte non lo si vuole fare perché si vuole mostrare solo la bontà del
personaggio, ma noi invece volevamo mostrare la violenza e la bontà al tempo
stesso e quindi la tenerezza ma anche la frustrazione nei confronti di questa
mamma”.
Che rapporto c’è con la colonna sonora
di Jonny Greenwood?
L. R.: “Io ho scritto la sceneggiatura in Grecia,
sull’isola di Santorini, in una città in cui non ci sono automobili. L’ho scritta
in un silenzio quasi totale. A me quando scrivo le sceneggiature piace molto
anche dare delle indicazioni o comunque citare i suoni, i rumori. Non da un
punto di vista tecnico ma più da un punto di vista di quello che io sento e
percepisco. Poi quando sono andata a New York e ho sentito parte della musica
mi sono detta ‘sembra quasi il suono dell’inferno’ e ci sono delle parti che
inserite all’interno del film vengono accentuate. È stato un lavoro molto bello,
alla fine la musica diventa quasi un personaggio all’interno del film. Anche perché
sembra che tu ti debba aspettare qualcosa e poi invece la musica ti porta da un’altra
parte. La collaborazione con Greenwood per le musiche è stata fatta abbastanza
in economia perché avevamo pochi mezzi, pochi soldi. Io gli davo un pezzo di
girato e lui mi mandava le musiche o lui mi mandava i file audio e noi poi tagliavamo
e montavamo in base alla musica. In effetti le musiche sono una specie di dono
che ci è stato fatto”.
J. P.: “Io non ho ascoltato la musica prima. In realtà
non l’ho ascoltata neanche adesso, solo i titoli di coda. In effetti è raro che
l’attore senta le musiche del film prima perché in genere le musiche vengono
scritte dopo che tu hai finito di girare. Quello che Lynne mi ha raccomandato
di tenere presente erano i suoni della città che erano molto importanti. Io non
vivo più a New York ma ci ho vissuto in passato e avevo dimenticato cosa
potesse essere. Gli unici suoni a cui prestavo attenzione erano ovviamente i
suoni della città e il suono del martello che io usavo per rompere qualsiasi
cosa”.
Come ti sei trovato a lavorare in una piccola
produzione a basso budget? In base a cosa scegli un ruolo?
J. P: “Io non sono abituato a scegliere una
produzione in base alla sua dimensione da un punto di vista economico. Il processo
decisionale che seguo non è basato su questo. Non dico sì o no in base ai soldi
ma dico sì o no in base alle persone che sono coinvolte. Se Lynne dovesse fare
un film da 300 milioni di dollari sarebbe curioso parteciparvi. Quello che mi
interessa è il materiale, la sostanza e chi ci lavora, chi sono i cineasti. Per
me è stata una grande gioia lavorare in questo film, mi è piaciuto moltissimo. Poter
lavorare a un ritmo serrato, in cui un attore non ha molto tempo a
disposizione. Ci presentavamo ogni giorno e dovevamo cercare di realizzare tantissimo,
il massimo possibile. In ogni ripresa, in ogni inquadratura cercavamo di fare
qualcosa di diverso per vedere cosa potesse funzionare meglio. Per Lynne è
stato difficile ma io la ringrazio di avermi potuto dare l’opportunità di
correre questo rischio. Io in cambio le ho donato 70 ore di robaccia che lei ha
dovuto passare al setaccio per tirarne fuori qualcosa di bello e di positivo. Mi
è piaciuto molto lavorare con lei”.
L. R.: “Voglio aggiungere che quello che lui ha
detto dal punto di vista delle 70 ore non è affatto vero. Il materiale che mi ha
dato era fatto talmente tanto bene che è stato difficile scegliere cosa mettere
e cosa togliere”.
Il film è uscito da poco negli Stati
Uniti, ottenendo recensioni esaltanti. Che tipo di accoglienza ha ricevuto? Non
solo critica ma soprattutto sul tema messo in scena nel film: schiavitù
sessuale e senatori. Quale è stata la reazione a questo binomio?
L. R.: “Mi sono state fatte molte domande dal
movimento #MeToo, mi hanno chiesto se il film fosse stato fatto prima o dopo l’esplosione
dello scandalo di Harvey Weinstein. Quello che penso è che la gente abbia
apprezzato il film perché è un film complesso che non tende a raccontare le
cose in maniera semplicistica ma cerca di raccontarle a tutto tondo, anche con
onestà. È stato accolto bene negli Stati Uniti e mi auguro che anche qui venga
preso nella stessa maniera”.
Copyright foto e video © Silvia Sottile
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