di Silvia Sottile
Attualmente in sala, The Dead Don’t Hurt - I Morti Non Soffrono (qui la nostra recensione), diretto e interpretato da Viggo Mortensen, è stato presentato alla Festa del Cinema di Roma 2024 alla presenza del regista (che ha anche ricevuto un Premio alla Carriera).
Ecco cosa ci ha raccontato in conferenza stampa:
L’ispirazione
per questo film arriva da tua madre. Quale è stata la scintilla? E come si è
sviluppata questa idea a partire da questa ispirazione?
“Ho cominciato a
scrivere questo film senza sapere che sarebbe diventato un western. Ho iniziato
a scriverlo nel 2020 durante il lockdown. All’epoca ero in Spagna, a Madrid,
che insieme al Nord Italia è stato il posto più colpito dalla pandemia sia per
le restrizioni che i tassi di mortalità. Mi trovavo lì e non potevo partire,
non mi potevo muovere a più di 250 metri da casa. Dovevi andare a fare la spesa
nel supermercato più vicino, potevi andare in farmacia oppure dovevi avere un
cane. Noi avevamo un cane, quindi uscivo. Ma la maggior parte del tempo ero in
casa. Quindi ho scritto un paio di storie e questa era una di quelle. Ho dei
libri dell’inizio del XX secolo, erano libri di mia madre quand’era bambina –
sono quelli con la copertina rigida, con le illustrazioni, magari di cavalieri
medievali o avventure – e sapevo che lei abitualmente leggeva questi libri.
Conoscevo la sua personalità di una donna autonoma, molto indipendente,
curiosa, con opinioni molto forti e determinate, una persona psicologicamente
molto forte, anche se era una persona comune, quindi ho cominciato a scrivere
immaginando come si potesse essere al suo posto, mentre cresceva, utilizzando
la mia immaginazione. Ho pensato a dove poter mettere una persona così,
indipendente prima come ragazza e poi come donna, una persona libera. La potrei
mettere magari nel XIX secolo nella frontiera del West perché è la situazione
più difficile per lei. Ho cominciato a scrivere e a quel punto ho detto ‘Be’,
potrebbe essere un western’. A me i western piacciono. Sono cresciuto
guardandoli, come hanno fatto molti ragazzi della mia generazione. Ancora
adesso si possono vedere vecchi western in televisione. Io da bambino andavo a
cavallo, quindi mi piaceva tutto ciò che riguardava questa cosa e i western. È
partito così e ho cominciato a scriverlo”.
Questo
è il tuo secondo film da regista. C’è qualcosa che hai imparato dal primo, Falling, che ti ha potuto aiutare in questo anche se è un genere diverso?
“Quando l’ho
fatto avevo già 60 anni. Erano molti anni che volevo dirigere un film. Però non
riuscivo a trovare nessuno che lo finanziasse. Per me era una cosa positiva
comunque, perché ho imparato da tantissimi bravi registi come non fare le cose.
È stato come prepararmi, anche a comunicare col cast. Ero pronto. Non era così
diverso rispetto a come guardavo nel fare film da attore. Io sono sempre stato
interessato a questo sforzo collettivo: come si va dalla sceneggiatura allo
schermo, come si può essere efficienti o inefficaci. Presumo che la seconda
volta mi sono fidato un po’ di più dei miei istinti. Ho ascoltato tutti però
poi ho fatto quello che volevo. Un po’ più fiducioso in me stesso. Non puoi
esserlo troppo perché devi essere aperto alla collaborazione con gli altri,
alle sorprese, a volte devi improvvisare, ma la preparazione è stata la stessa.
Ero soltanto un pochino più fiducioso nella mia capacità di giudizio”.
Due
curiosità. C’è una scena in cui Vicky Krieps sta attraversando una pozza
d’acqua a cavallo con il figlio e tu la segui a cavallo. Quando lei sta per
risalire ti porge la mano come per darti un aiuto di cui non avevi bisogno.
Però è per fare un pezzo insieme mano nella mano. È di una tenerezza
straordinaria e inusuale in un western. Era già scritta in sceneggiatura o è
venuta sul set? Seconda curiosità sempre con Vicky Krieps: ti fai correggere
due volte sulla pronuncia di omelette,
non ti è venuto il dubbio che la facesse con i funghi avvelenati come per
Daniel Day-Lewis ne Il Filo Nascosto?
“No,
non ci ho pensato [ride]. Tornando alla prima domanda. Mi piace particolarmente questa scena.
Molto breve da un punto di vista visivo, ma molto bella penso. E funziona. Ogni
scena dovrebbe avere un qualcosa che porta avanti la storia e questa scena,
sebbene breve, fa tante cose per me. Con la musica fa una cosa, una sorta di
transizione, qualcosa di speranzoso che lo riguarda, non celebrativo, magari
che questo rapporto può essere ricostruito. A questo punto della storia il mio
personaggio non è sicuro. Sta cercando di adattarsi a questa nuova situazione.
Ritorna, col figlio, con questo bambino… Visualmente la scena fa un paio di
cose: innanzitutto la donna va avanti a cavallo rispetto a lui. E lei ha il
bambino. Più avanti cronologicamente vediamo lui andare a cavallo col bambino.
Lui ha imparato a fare questa cosa dalla madre. È lei che guida, è lei che
conduce, è lei che ha il bambino con sé e mostra anche che questa donna è
capace di fare delle cose. Non è debole, passiva ma è una persona forte. Quindi
visivamente questo è un esempio. E quando gli porge la mano ovviamente lui non
ha bisogno di essere aiutato. Lei non lo guarda e lui non guarda lei ma vede la
mano e prende la mano. È il suo modo di dire ‘proviamoci’ e lui dice ‘ok,
proviamoci’. Sempre in silenzio nella scena successiva c’è una confessione non
verbale. Come delle scuse da parte di lui quando la guarda e la bacia. Queste
sono due scene, una dietro l’altra, che per me sono state molto importanti”.
“Per
quanto riguarda la seconda curiosità, non pensavo ai funghi avvelenati.
Comunque mi è piaciuto l’uso dell’omelette nel film. Era un po’ una sequenza
rischiosa, quando lui si sveglia, la colazione… Sulla pagina la leggi e non ti
dice molto. Ma sapevo che con lei, perché lei è un’ottima attrice, le cose te
le puoi immaginare. Lei è un’attrice che può comunicare senza parlare, una
persona che ha tanti strati. Senza una persona così non può funzionare. In
questo caso il rischio era che il dialogo sembrasse stupido. Lei lo guarda alla
luce del giorno dopo aver trascorso la notte insieme. Lei sembra pensare che
lui è un idiota e pensa a come liberarsene… E poi la cosa con l’omelette, il
gioco con le parole, lui lo pronuncia come farebbe un danese, lei lo pronuncia
correttamente come una persona di lingua francese. Riguarda più il fatto che
loro due sono cocciuti, testardi, ma in grado di giocare l’uno con l’altro.
Questa scena comincia a impostare il loro rapporto in una maniera diversa. Questa
storia che parla di molte cose, essenzialmente è una storia d’amore, la storia
di una donna molto forte e indipendente, i suoi rapporti con i componenti della
sua famiglia e al di fuori della famiglia, una storia in cui perdono e
accettazione, una certa umiltà nei rapporti, sono molto più importanti di
quanto non lo sia l’idea della vendetta, o l’idea di avere l’ultima parola.
Quindi questa ‘omelette’ è un po’ un microcosmo di tutta questa idea e mi
auguro che sia divertente e commovente. Li vedi insieme”.
Visto
il Premio alla Carriera, questo riconoscimento ti porta a fare un bilancio? E come
guardi al futuro? Il ruolo ne Il Signore
degli Anelli per te rimane
iconico come per il pubblico?
“In
genere non parlo del Signore degli Anelli perché è soltanto un progetto. Per
una persona che lavora nel raccontare storie cinematografiche, sia esso un
attore o un regista, un produttore un musicista, chiunque partecipi in questo
sforzo collettivo di raccontare un film, è sempre piacevole, lusinghiero e
positivo che si presti attenzione a quello che fai. Un riconoscimento di questo
tipo, in un Festival così importante come questo, è fantastico. E ne sono grato
ma non perdo mai di vista il fatto che il lavoro è una cosa, i riconoscimenti
ufficiali o meno, dal pubblico o da un Festival, sono una cosa separata. Sono
incoraggianti, molto piacevoli, speciali, ma non mi aiuteranno a fare un lavoro
migliore perché il lavoro è una cosa separata. Continuerò a fare ciò che posso
ma ne sono grato. E guardandomi indietro è una somma di tante parti: le persone
che ho visto lavorare, le storie che abbiamo raccontato, i luoghi in cui sono stato,
tutto è un’esperienza di apprendimento e mi auguro che ci si evolva e si abbia
una migliore comprensione di come collaborare con le persone ed essere
efficienti nella narrazione. Quindi non è una singola esperienza. Mi è piaciuto
moltissimo partecipare al Signore degli Anelli, un bel film, una bellissima
esperienza essere in Nuova Zelanda per così tanto tempo, veder lavorare così
tante persone a questo progetto, alcuni hanno imparato lì come fare questo
lavoro visto che erano appena usciti dalla scuola. È stata davvero una grande
esperienza. Poi che sia iconico o meno…”.
I
dialoghi di questo film sono molto essenziali. Sembra che queste due persone
abbiano così tanto rispetto l’uno per l’altro che non ci sia quasi bisogno di
parlare. Hanno bisogno di poche parole. Come hai lavorato su questo aspetto?
“Per me era
molto importante che i personaggi, soprattutto Vivienne, riuscissero ad
esprimere le emozioni interiori in silenzio… i pensieri, i sentimenti… Puoi
immaginare questa cosa, ma senza attori veramente bravi sei limitato. Quando ho
finito di scrivere la storia ho pensato agli attori, succede spesso che
qualcuno non è disponibile, o non vuole fare il film, non sempre puoi prendere
la tua prima scelta. Fortunatamente lei (Vicky Krieps) ha detto sì. E quando ha
detto sì, ho capito che avremmo potuto fare qualcosa di speciale. La prima
volta che l’ho vista è stato ne Il Filo Nascosto con Daniel Day-Lewis. Quando
l’ho vista la prima volta mi è subito sembrata come Meryl Streep diversi anni
prima. Ho notato subito qualcosa, una forza interiore, carisma, che riusciva a
esprimere senza parole. C’è un momento del film in cui lei esprime una guerra
psicologica solo con lo sguardo, in maniera molto intensa. Con un’altra attrice
avresti magari dovuto tagliare dei pezzi. Devi essere fortunato col casting e
riuscire a ingaggiare qualcuno che possa fare quello che stai immaginando”.
Hai
creato un grande personaggio femminile, forte, resiliente e anche vulnerabile,
fantastico. Qual è il significato di questo personaggio al giorno d’oggi? In
relazione alle imminenti elezioni americane, un personaggio politico forte
potrebbe essere importante per il futuro degli Stati Uniti?
“Vivienne
for President? Non male. Forse Kamala Harris ha qualcosa di Vivienne. È forte
dentro, ma anche sensibile, vulnerabile, aperta, diretta. Gli uomini? Non
riescono a sottometterla psicologicamente. Lei è in grado di difendersi. Quando
scrivo una storia o quando dirigo un film, il mio punto di partenza non è mai
ideologico. Non cerco di fare una dichiarazione politica, o una dichiarazione
su uomini e donne, cerco solo di raccontare una storia. E credo che qualsiasi
storia che contiene delle persone che vedi e senti e che sembrano persone reali
con problemi reali, reali conflitti e differenze di opinioni, paure, emozioni,
naturalmente verranno correlati ai tempi in cui viviamo, la famiglia, la
società, il mondo, il momento. Questo succede a prescindere. Questo processo mi
piace. Mi piace che una volta che ho fatto il film e l’ho presentato a una
persona o a una sala piena di persone, non è più il mio film, è il loro film.
Loro vi attribuiscono le proprie esperienze, le proprie prospettive, i propri
punti di vista. Questa è una specie di transfert che avviene. Per quanto
riguarda Kamala Harris ho già detto che penso che lei sarebbe un’eccellente
Presidente. Mi rendo conto che negli Stati Uniti, così come in Italia e in
molti altri paesi, sebbene ci siano stati capi di Stato donne – ad esempio in
Gran Bretagna e in altri stati europei – continua comunque a esserci una certa
riluttanza, non soltanto fra gli uomini ma anche fra le donne, una riluttanza
nella società sul fatto che le donne possano essere sufficientemente forti
quanto lo sono gli uomini. Se deve essere una donna, deve essere veramente tosta,
anche un po’ cattiva, come un uomo. Ovviamente questo non è vero. Nella nostra
storia Vivienne non prende un fucile e spara a tutti i cattivi. Non è un film
dove una donna deve agire come un uomo per essere rispettata. È sensibile. Non
è fisicamente forte come gli uomini contro i quali si ritrova ma
psicologicamente lo è sicuramente molto di più. È più forte di tutti gli altri.
Quindi c’è questo ostacolo nei confronti delle donne. Il dubbio che possa
davvero avere questo ruolo, specie se è una persona dotata di compassione,
sensibile. Ma credo che possa e debba succedere. Sono convinto che Kamala
Harris vincerà, otterrà milioni di voti popolari come li ha avuti Hillary
Clinton. Purtroppo però abbiamo un sistema arcaico. Il collegio elettorale non
è a favore del popolo. Questo è molto grave e può annullare o pesantemente
attenuare i risultati della scelta popolare. Lei vincerà il voto popolare. È da
capire in quali stati vincerà. Se poi vincerà anche la Presidenza non lo so”.
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