giovedì 10 marzo 2022

"Parigi, tutto in una notte" - Intervista alla regista Catherine Corsini

 di Silvia Sottile


Raf (Valeria Bruni Tedeschi) e Julie (Marina Foïs), una coppia sull’orlo della rottura, si ritrovano in un affollatissimo pronto soccorso la sera dopo un’importante manifestazione di protesta dei gilet gialli a Parigi. L’incontro con Yann (Pio Marmaï), un manifestante ferito e arrabbiato, manderà in frantumi le loro certezze e i loro pregiudizi. Sarà una lunga notte...

Parigi, tutto in una notte, candidato a 6 premi Cèsar, è un film di Catherine Corsini.

È nelle nostre sale dal 10 marzo, grazie ad Academy Two.

Ecco l’intervista alla regista:

La Belle Saison e Un amour impossible sono film ambientati in altre epoche.Con
Parigi, tutto in una notte, lei ritorna a occuparsi del tempo presente e a parlare di temi di attualità, come le proteste dei Gilet gialli...

Dopo questi due film ambientati in altre epoche che trattavano di femminismo e incesto, volevo fare un film che parlasse di questioni di attualità scottanti, di quello che succede nel mondo di oggi, incluse le sue divisioni sociali ma non ero sicura del modo in cui affrontare queste tematiche. Come potevo rendere drammaturgicamente quello che stava succedendo? Sarei stata in grado di fare un film politico senza usare l’approccio duro dell’attivista? Quale prospettiva dovevo adottare? Come fare le riprese? Durante tutta la produzione di questo film, ho pensato molto all’approccio, farsesco e al tempo stesso profondo, che Nanni Moretti usa per comunicare le sue convinzioni politiche. Stavo cercando una trama narrativa proprio quando ha avuto inizio il movimento dei gilet gialli.


Perché ha scelto un ospedale per ambientare una storia di frattura sociale?
Quando sono svenuta e mi sono ritrovata al Pronto Soccorso dell’Ospedale Lariboisière, il primo dicembre del 2018, ho capito che avevo trovato l’espediente narrativo giusto per il film e per collegarmi al clima sociale odierno. Per tutta la notte ho seguito attentamente il modo in cui veniva gestita l’attività dell’ospedale, ho osservato il personale stremato e schiacciato da un carico di lavoro eccessivo, il personale era attento ed empatico nei confronti dei pazienti, ma non poteva permettersi di essere anche gentile; ho studiato i pazienti assembrati nella sala d’attesa, in shock, sconvolti, o bisognosi di qualcuno che li ascoltasse... La situazione è ancora più marcata all’Ospedale Lariboisière, che si trova vicino alla stazione ferroviaria e soccorre persone in condizioni di povertà, individui di passaggio, tossicodipendenti, persone con disturbi psichiatrici, minori non accompagnati...
Dopo questa esperienza, ho pensato che l’ambiente di un pronto soccorso fosse il posto che mi serviva per raccontare la storia che avevo in mente. Far incontrare una coppia al femminile dell’alta borghesia in un ambiente in cui sono presenti persone di tutti i ceti sociali poteva generare dibattiti e attriti e ritrarre i contrasti e le divisioni della società
.

 



Come ha diretto la coppia nel film?
Ho cercato di creare una certa distanza estrapolando la situazione che Elisabeth (la mia produttrice) ed io abbiamo vissuto in quella notte al Pronto Soccorso. In ultima analisi ho capito che il film sarebbe sempre stato qualcosa a metà fra un documentario e una fiction. Non ho esposto la mia famiglia per narcisismo ma perché questo mi permetteva di affrontare questioni politiche. Non ho neanche tentato di farci apparire in una luce positiva, volevo portare a galla la nostra cattiva coscienza, le nostre contraddizioni e la nostra pigrizia nei confronti delle manifestazioni di protesta. Non potevo identificarmi con un gilet giallo, o con un’infermiera, ma potevo parlare di loro dal luogo in cui avevo ambientato film. Volevo spingermi oltre la mia zona di comfort e attraverso la coppia di protagoniste, volevo prendere in giro una generazione di attivisti che un tempo credevano nella rivoluzione ma che ora trovano la nuova rivoluzione “un po’ troppo violenta”!


Come ha scritto il personaggio di Yann?
Mi è stato di grande ispirazione il documentario Middle Class, Lives on the Line, realizzato ben prima dell’inizio del movimento dei gilet gialli. Questo documentario di Frédéric Brunnquell racconta come le persone possano essere risucchiate nella povertà dopo la perdita del lavoro. Le loro vite erano più o meno finanziariamente sostenibili e poi, tutto d’un tratto, vengono capovolte. Ho anche ascoltato le testimonianze dei gilet gialli nel magnifico programma radiofonico di Sonia Kronlund, Les pieds sur terre. Testimonianze scioccanti di persone che sono uscite
in piazza per dimostrare con grande candore e che sono state ferite da granate e proiettili di gomma... Ho provato un grande senso di empatia. Ti rendevi conto che non si trattava di delinquenti, né di pazzi isterici che volevano la testa di Macron. Erano usciti a manifestare per le loro convinzioni, le loro richieste erano estremamente logiche e legittime, non chiedevano semplicemente un piccolo bonus finanziario. Le loro richieste di giustizia sociale erano profonde e motivate dalla sofferenza di fronte ad un mondo che ci sta sfuggendo di mano... Volevo affrontare questa realtà e parlarne attraverso il personaggio di Yann. Yann ama il suo lavoro, ma non riesce a sbarcare il lunario. Vuole dire la sua, come tanti gilet gialli, farsi ascoltare. Dopo che resta ferito, il suo unico obiettivo è ritornare al lavoro. La situazione è doppiamente punitiva per lui: è stato ferito e rischia di perdere il suo lavoro.

 



Il film comunica una sensazione di estrema tensione...
Il fatto che le riprese si siano svolte durante la crisi sanitaria e il secondo lockdown hanno attribuito al film una particolare energia. Avevamo tutti paura che le riprese sarebbero state interrotte a causa del Covid o delle nuove ordinanze del governo quindi ogni giorno era una sfida. Inoltre, era la prima volta che facevo le riprese su un unico set, tendo a fare film che si spostano da un set all’altro! Lo spazio confinato del pronto soccorso è una sorta di microcosmo in cui niente si ferma mai. Devi prenderti cura delle persone e al tempo stesso le persone devono aspettare. E come fai a riprendere quell’attesa senza fare annoiare gli spettatori? Ho provato ad essere
sempre in movimento anche restando nello stesso posto. Volevo catturare il cuore pulsante dell’ospedale dove sappiamo che qualsiasi cosa può succedere nel giro di pochi minuti. Anche nelle riprese in campo-controcampo, con Julie e Raf sdraiate sulla barella, volevo che fosse sempre tutto in movimento, volevo fare in modo che la telecamera decostruisse la ripresa per catturare la tensione di quello che sarebbe potuto succedere. Non c’è mai un momento di pace in un pronto soccorso, c’è sempre qualcuno che inizia a gridare, un medico che passa, barelle, sirene che suonano...

In francese diciamo che l’umorismo rappresenta il lato educato della disperazione. Nel suo film, si potrebbe dire che l’umorismo rappresenta l’urgenza della disperazione.
Tutti gli infermieri che ho incontrato mi hanno detto che ridono molto insieme. Hanno bisogno di questo umorismo catartico per affrontare e sopportare cose che sono a volte molto difficili da accettare. Era complesso trovare il giusto tono e il giusto equilibrio per il film che si muove sulla linea sottile che separa la commedia dal dramma umano e sociale, mescolando documentario e fiction. Ho pensato molto alle taglienti commedie politiche di Ken Loach, come Piovono pietre.

Qui il trailer:



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