di Silvia Sottile
Presentato in anteprima nazionale alla Festa del Cinema di Roma, Eddington (qui la nostra recensione), il nuovo film di Ari Aster, è nelle nostre sale dal 17 ottobre, distribuito da I Wonder Pictures in collaborazione con Wise Pictures.
Il regista e sceneggiatore Ari Aster, dopo Hereditary, Midsommar e Beau
ha paura, ha realizzato con Eddington il suo film più ambizioso e sorprendentemente
attuale. Un racconto sospeso fra distopia e realtà che mostra, attraverso la
sua lente acuta e spiazzante, le contraddizioni più oscure e brutalmente
surreali del suo paese: il rovescio della medaglia del sogno americano e un
ritratto inquietante dell’America di oggi.
Protagonisti Joaquin Phoenix, Emma
Stone, Pedro Pascal, Austin Butler, con Luke Grimes e Micheal Ward: un cast
stellare che regala
personaggi complessi, affascinanti, magnetici, che affrontano un mondo in
costante trasformazione.
Maggio 2020. In una piccola cittadina del New Mexico,
lo scontro tra lo sceriffo locale (Phoenix) e il sindaco (Pascal) innesca
un’escalation di tensione, trasformando Eddington in una polveriera pronta a
esplodere. Mentre la comunità si frantuma in fazioni contrapposte, diffidenza e
paura prendono il sopravvento in un susseguirsi di colpi di scena.
Abbiamo avuto il piacere di incontrare il regista Ari Aster in conferenza stampa alla Festa del
Cinema di Roma. Ecco cosa ci ha raccontato:
Ci può parlare dell’origine di questo
film? Scritto in piena pandemia ma, alla luce di quanto successo dopo, viene da
pensare che sia cambiato poco, anzi, sembra che le cose siano ulteriormente
peggiorate nel mondo. Se lo aspettava?
“Sì, le cose sono peggiorate nel mondo. Non mi aspettavo peggiorassero
così tanto. Ho iniziato a scriverlo a maggio 2020, esattamente quando è ambientato
il film. Sentivo qualcosa che aleggiava nell’aria, le cose mi sembravano pronte
a esplodere. Cercavo di afferrarle. Tutto cambia così rapidamente. Sebbene
tecnicamente è un film d’epoca, lo vedo sempre più attuale. Da luglio 2025
negli Stati Uniti sono successe cose che ci portano a vedere il film in maniera
diversa, sempre più pertinente e rilevante. La pandemia è stato un punto di
inflessione, un sistema nell’ambito del quale abbiamo vissuto per tanto tempo.
Vivendo sui telefonini e su internet è come se la porta ci fosse stata chiusa
alle spalle e noi fossimo rimasti arenati in quella situazione dalla quale non
si riesce a uscire, che ancora oggi persiste. È difficile fare un film sul
COVID perché ancora non l’abbiamo metabolizzato, siamo ancora in questa
situazione, stiamo ancora imparando come attraversare queste acque, anche se ci
stiamo allontanando sempre di più da questa lezione. Il film cerca di fare del
proprio meglio per trarre un senso da un ambiente che è diventato incoerente”.
Quando lavora a un film, pensa subito al
genere o il genere esce fuori scrivendo la sceneggiatura?
“Non comincio mai col genere. Magari con Midsommar ho cominciato con il
genere. Ma la tendenza è iniziare con un soggetto, un’immagine, un personaggio
e poi lo seguo. Ho cercato strada facendo di determinare quale fosse il
percorso più giusto per quella storia. E credo che è il modo in cui continuerò
a lavorare. Se cominci col genere potrebbe funzionare ma è qualcosa di
limitante”.
Quando ha pensato che il western fosse il
genere adatto per questa storia? Pensa che un giorno avrà voglia di raccontare
una storia sotto forma di commedia?
“Per rispondere alla seconda domanda, l’ultimo film, Beau ha paura, lo
considero una commedia. È una commedia incubo ma ho fatto di tutto per far ridere
durante il film. Questo film è una dark comedy. Mi auguro che sia molte altre
cose, spero sia anche triste, ricco di suspense e qualsiasi altra cosa. Il
western? Ci sono molte risposte al perché. Mi sembrava giusto in questo caso.
Io vengo dal New Mexico, conosco il Sud Ovest molto bene, è una zona che
capisco. Quel paesaggio si presta naturalmente al western. È un genere
interessante perché è un po’ il genere nazionale in America. Parla del sogno
americano, del mito dell’America. Fa un po’ i conti con la realtà dell’America.
Siamo in un luogo e in un momento senza precedenti, ovunque, in tutto il mondo,
ma io conosco l’America e quindi posso parlare di quella. La sensazione che ho
è che il vecchio sistema stia crollando e siamo all’apice di un qualcosa di
nuovo, ci stiamo per arrivare. Mi sembrava quindi giusto cercare di rivolgermi
alle tradizioni del western. È un genere che si occupa delle basi della
fondazione del paese, della questione della legge rispetto all’illegalità,
questioni che hanno a che vedere con i confini, gli elementi tribali… tutto
questo mi sembrava più che adeguato”.
Perché ha scelto di affrontare questi
temi?
“Perché il mondo in questo momento è un brutto posto e sono preoccupato
e spaventato. Perché non dovrei fare un film su questo? Credo ci sia una
tendenza tra gli artisti a ritirarsi rispetto a queste cose perché al momento
stare al mondo è spiacevole. Guardare al mondo e considerare il futuro è
doloroso. In realtà il futuro sembra impossibile da vedersi. È per questo che
ci sono molte persone che non credono nel futuro. Se non uso il materiale del
mondo, questo userà me. Quindi devo trovare un modo per dargli un senso.
Presumo che uno dei doveri dell’artista sia quello di riflettere e di fare da
specchio dei propri tempi. Io ho cercato di farlo in qualche maniera, di
riflettere il mondo così com’è, nella maniera più onesta possibile”.
Viviamo in un’epoca in cui è molto
difficile stabilire la verità e distinguere cosa è reale da cosa non lo è.
Questa cosa la spaventa?
“Sì, sono molto spaventato. Credo che sia una catastrofe. Perché se
siamo scontenti della situazione, se percepiamo di essere sul percorso
sbagliato – e lo percepiscono in molti ma senza riuscire a mettersi d’accordo
su quale sia il percorso giusto da seguire – che speranza c’è che ci possa
essere un’azione collettiva significativa? La situazione in cui ci troviamo ora
è una ricetta che porta a costanti scontri interni, lanciandosi alla gola del
vicino mentre invece qualcos’altro sta succedendo a livelli molto più alti da
cui invece veniamo distratti. Molte persone nella mia vita hanno idee politiche
diverse dalla mia e sono convinte che le cose si stiano verificando nel mondo
in un certo modo mentre io non sono d’accordo e viceversa, loro non sono
d’accordo su cosa io penso stia succedendo nel mondo. Non c’è modo di uscirne,
non c’è un venirsi incontro. Credo che questo sia qualcosa che veramente fa
male e spezza il cuore. Questa alienazione imposta che tutti percepiamo credo
sia il risultato della rivoluzione tecnologica, in cui le persone speravano
molto quando è partita. È difficile dire quando sia veramente iniziata. La
stampa, la radio, la televisione, internet, i telefonini… io parlo di qualcosa
che credo sia iniziato con internet. Le persone erano estremamente entusiaste,
c’erano questi ideali utopici che venivano alimentati. Ma rapidamente quelle
speranza sono state deluse perché alla fine tutto è stato infettato da
interessi finanziari e cose simili. Credo che la rivoluzione tecnologica sia
una cosa largamente disumanizzante”.
I fatti accaduti recentemente in America,
ovvero l’omicidio di Charlie Kirk, hanno rappresentato un ulteriore passaggio
di questa trasformazione del paese a cui stiamo assistendo?
“Sì. Credo che le cose si siano significativamente esacerbate con quei
fatti. Quell’evento in particolare getta una luce diversa su Eddington. Il film
è in dialogo con quanto accaduto, in un modo che io non potevo certo prevedere”.
Oltre ad assistere ai fatti che accadono
in questa cittadina, il viaggio del pubblico è anche un viaggio nella mente del
protagonista. Lo vediamo muoversi nella città ma assistiamo anche al suo
delirio mentale. È una costante dei suoi personaggi questa doppia esplorazione?
Li vediamo agire e pensare.
“Sì, sono interessato alla vita interiore delle persone nei miei film. E
questo è un caso interessante perché è un film corale, i personaggi sono
numerosi e soprattutto legati alla soggettività di un personaggio (Joe Cross,
interpretato da Joaquin Phoenix). In Beau ha paura quel percorso definisce il
film. In questo film volevo capire Joe e in questo senso credo che il film sia
un po’ insidioso perché si allinea con lui e poi man mano che il film va avanti
si capisce in che posizione ci si trova rispetto alle sue credenze e alla sua
ideologia. Cosa che dovrebbe diventare ancora più confusa man mano che il film
procede. Con questo film gioco con la sua esperienza e con qualcosa che è ancora
un po’ più oggettivo. È difficile parlarne con esattezza, è questione di
calibrare”.
Cosa significa lavorare su personaggi così
complessi con un attore come Joaquin Phoenix con cui appunto aveva già lavorato
in Beau ha paura? Sappiamo che è un
attore molto esigente ma capace di dare a un personaggio qualcosa che altri non
sono in grado di dare. Come avete costruito questo personaggio?
“Joaquin è un attore molto specifico. È un grande attore. Prima di
lavorare con lui la prima volta, la mia sensazione era che lui fosse uno dei
migliori attori al mondo. Dopo averci lavorato avevo la sensazione che fosse
persino migliore rispetto a quello che io avevo immaginato prima. È una persona
che mette in dubbio qualsiasi cosa in scena. Mentre procedi, lui ha domande da
fare. All’inizio cercavo di trovare risposte alle sue domande ma poi ho capito
che non stavamo cercando una risposta. Stava cercando di trovare la domanda giusta
per mantenere vivo il lavoro. Era questo quello che lui faceva. Si tratta di
esaminare tutte le domande e individuare quella che ti anima di più e che ti dà
maggiore spinta. Ogni attore è diverso. A Joaquin piace parlare molto delle
cose, è un attore molto tecnico che mi ha sorpreso perché il lavoro che fa ti
dà la sensazione che sia molto spontaneo, quasi grezzo. Invece non è così. È molto
cosciente e consapevole di quello che fa, come se fosse un artigiano. Può ripetere
una cosa fintanto che non suona onesta. Quando comincia a percepire che sta
recitando, si ferma. Devi in un certo senso tornare al laboratorio e trovare un
nuovo modo per entrare nella scena. Questo lo trovo un modo molto interessante
e divertente di lavorare. Joaquin lavora in maniera molto diversa ad esempio
rispetto a Pedro Pascal, lavora in maniera diversa da come lavora Emma Stone. Austin
Butler forse lavora in maniera abbastanza simile a Joaquin. Ma ogni attore è
diverso e questo è parte del divertimento nel lavorare con gli attori. Con ogni
persona nuova trovi una nuova lingua”.
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